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SENATO DELLA REPUBBLICA
—————— XIV LEGISLATURA ——————

411a SEDUTA PUBBLICA

RESOCONTO

SOMMARIO E STENOGRAFICO

MARTEDÌ 10 GIUGNO 2003

(Antimeridiana)

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Presidenza del vice presidente CALDEROLI

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RESOCONTO SOMMARIO

Presidenza del vice presidente CALDEROLI
indi del vice presidente FISICHELLA

La seduta inizia alle ore 10,02.

Il Senato approva il processo verbale della seduta del 5
giugno.
Omissis

Seguito della discussione dei disegni di legge:

(1877) Norme sullo stato giuridico degli insegnanti di
religione cattolica degli istituti e delle scuole di ogni
ordine e grado (Approvato dalla Camera dei deputati)

(202) EUFEMI ed altri. – Norme sullo stato giuridico
e sul reclutamento dei docenti di religione cattolica
(259) BASTIANONI. – Norme in materia di stato giuridico
e di reclutamento degli insegnanti di religione cattolica

(554) BEVILACQUA ed altri. – Norme sullo stato giuridico
degli insegnanti di religione cattolica

(560) SPECCHIA ed altri. – Norme in materia di stato
giuridico e di reclutamento degli insegnanti di religione
cattolica

(564) BRIGNONE. – Norme in materia di reclutamento
e stato giuridico degli insegnanti di religione cattolica

(575) MONTICONE e CASTELLANI. – Norme sullo stato
giuridico degli insegnanti di religione cattolica (659)
MINARDO ed altri. – Norme in materia di stato giuridico
e di reclutamento dei docenti di religione cattolica (811)
COSTA. – Norme in materia di stato giuridico degli
insegnanti di religione cattolica (1345) TONINI ed altri.
– Norme sullo stato giuridico e sul reclutamento degli
insegnanti di religione cattolica (1909) ACCIARINI ed altri.
– Norme sullo stato giuridico e sul reclutamento degli
insegnanti di religione cattolica

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito
della discussione dei disegni di legge nn. 1877, già
approvato dalla Camera dei deputati, 202, 259, 554, 560,
564, 575, 659, 811, 1345 e 1909.

Ricordo che nella seduta antimeridiana del 3 giugno ha
avuto inizio la discussione generale.

È iscritto a parlare il senatore Gubert. Ne ha facoltà.

GUBERT
(UDC)
. Signor Presidente, onorevoli rappresentanti
del Governo, onorevoli colleghi, è con viva soddisfazione
che dopo i tentativi delle scorse legislature ci si avvia,
con il disegno di legge in esame, a dare soluzione al problema
dell’inquadramento in ruolo e della carriera degli
insegnanti della religione cattolica.

Molti sono stati gli apporti uno dei quali, il primo disegno
di legge presentato, l’Atto Senato n. 202, vede la
firma di alcuni senatori dell’UDC tra i quali anche
la mia.

La soluzione proposta per rimuovere l’ingiusta discriminazione
cui erano e sono sottoposti gli insegnanti di religione
cattolica mi sembra equanime, migliore di quella che quest’Aula
aveva approvato nella scorsa legislatura. Il fatto che ad
attestare la capacità di insegnare la religione cattolica
fosse l’ordinario diocesano e che tale attestazione
fosse revocabile, veniva e viene assunto come condizione
che imponeva e impone la precarietà del rapporto
di lavoro. L’insegnante di religione cattolica, nonostante
le forti affermazioni circa l’importanza della cultura
e della tradizione cattolica contenute nel concordato fra
Stato e Chiesa cattolica, era di fatto pesantemente discriminato:
un insegnante di classe B.

Finalmente si è trovato il modo di conciliare lo
speciale regime di idoneità con la stabilità
del rapporto di lavoro e la possibilità di carriera.

Si tratta di un atto di giustizia. Proprio la laicità
dello Stato italiano lo priva della capacità di giudicare
se quanto insegnato da un candidato docente di religione
cattolica rappresenti i contenuti di questa in modo adeguato,
con particolare attenzione alla capacità pedagogica
e didattica. Chi volete, se non chi ha l’autorità
sull’ortodossia religiosa, che possa giudicare di questo?
Servirebbe agli studenti un insegnamento della religione
cattolica che non ne rappresentasse i contenuti, o che li
deformasse, o che li contraddicesse? Se, allora, proprio
la laicità dello Stato postula l’intervento dell’autorità
ecclesiastica, come riconosciuto dal Concordato, perché
considerare ciò la premessa per uno svantaggio nel
rapporto di lavoro di chi insegna la religione cattolica?

Giustamente eliminate le discriminazioni attinenti al rapporto
di lavoro, restano da eliminare le discriminazioni a cui
è sottoposto l’insegnamento stesso, e indirettamente
l’insegnante. È assai frequente che la collocazione
oraria dell’insegnamento della religione cattolica, nonostante
le norme contrarie, sia nelle fasce marginali, nelle ultime
ore, quando l’affaticamento degli studenti è maggiore.
Qualche insegnamento per forza dovrà essere collocato
in fasce sfavorevoli, ma il fatto che ciò accada
più di frequente per la religione cattolica non testimonia
certo dell’attenzione positiva per esso.

Anche per quanto riguarda la valutazione, l’importanza
ad esso attribuita è secondaria, trascurabile, ed
il fatto è aggravato se vengono attuate discriminazioni
circa la piena partecipazione dei docenti di religione cattolica
alla valutazione espressa collettivamente dai consigli di
classe. Sono venuto direttamente a conoscenza del ricatto
che i docenti di un consiglio di classe hanno posto all’insegnante
di religione: se egli non avesse acceduto alle loro richieste
di collocazione oraria, essi avrebbero provveduto ad escluderlo
dalle valutazioni del consiglio stesso. Spesso proprio il
tipo di materia insegnata consente al docente di religione,
invece, di conoscere meglio elementi che consentano una
più adeguata valutazione dell’alunno. La radice forse
principale di questa scarsa considerazione, in molti casi,
dell’insegnamento della religione cattolica sta probabilmente
nella sua opzionabilità.

Lo Stato italiano, la scuola, devono prevedere l’insegnamento
della religione cattolica, ma proprio il fatto che i genitori
prima e gli studenti poi siano richiesti di una specifica
opzione per poterla poi frequentare, testimonia che la conoscenza
degli elementi principali della religione cattolica non
è poi ritenuta importante, non fa parte della conoscenza
di base, non è parte integrante di una adeguata educazione
delle nuove generazioni. Chi ritiene utile tale conoscenza
la scelga, ma per lo Stato alla collettività nazionale
che la si scelga o meno nulla importa. È evidente
come siano prevalenti in questo atteggiamento considerazioni
circa la libertà religiosa, anziché quelle
di una formazione adeguata alla comprensione della realtà
socio-culturale nella quale i giovani si inseriscono. Ma
proprio la revisione del Concordato ha precisato come l’insegnamento
della religione cattolica non debba essere catechetico,
cioè quello tipico dell’attività di socializzazione
della comunità religiosa nella sua autonomia, bensì
debba assumere la funzione di trasmissione delle conoscenze,
circa credenze e valori, appropriato alla natura della scuola,
ossia valorizzandone la natura culturale. Non si tratta,
quindi, di un’attività di proselitismo, di indottrinamento,
bensì di fornire la conoscenza degli elementi culturali,
conoscitivi e valutativi della religione cristiana cattolica.

Se si pensa al cadenzamento del calendario settimanale
e annuale, se si pensa alla grande ricchezza del patrimonio
artistico e architettonico, se si pensa ad alcuni principi
contenuti nella Costituzione, se si pensa a molti elementi
della lingua, se si pensa alla storia italiana ed europea,
non si può non riconoscere l’importanza dell’esperienza
cristiana, cattolica, fino a poter dire che è impossibile
comprendere la cultura locale, regionale, nazionale ed europea
se non si conoscono credenze e valori del cristianesimo,
così come interpretato in Italia e in Europa.

Se questo è vero, ed è stato riconosciuto
anche da non credenti come Benedetto Croce, e se l’insegnamento
della religione cattolica, come previsto, è trasmissione
del cristianesimo come parte della cultura, è mai
possibile che lo Stato non debba proporre tale insegnamento
a tutti? Se in qualche caso esso fosse vissuto come violazione
della libertà religiosa, si potrebbe prevedere qualche
forma di esonero, ma tale assetto testimonierebbe di una
ben più adeguata considerazione della valenza formativa
per tutti, cristiani cattolici e non, della conoscenza della
religione cristiana cattolica, e ciò sarebbe valido
soprattutto per chi di questa cultura non fa parte, perché
proviene da altre culture e da altri mondi, con la crescente
immigrazione.

In Italia tale più adeguata considerazione è
prevista e attuata in provincia di Bolzano, mentre è
prevista e non attuata in provincia di Trento.

Oltre ad attuarlo in provincia di Trento, superando le
resistenze che tuttora si frappongono (e al riguardo, onorevole
Sottosegretario, richiamo due interrogazioni che ho presentato,
prive finora di risposta), nonostante i rilievi formulati
dal difensore civico e la testimonianza di alcune famiglie,
sarebbe il caso di estendere tale regime, previsto per le
Regioni di confine dal Concordato, a tutto il territorio
nazionale.

La questione è certamente delicata, affronta temi
sensibili, occorre tener conto dei processi storici di cambiamento,
ma a mio avviso è indubbio che faremo un servizio
ai giovani dando più rilievo all’insegnamento
della religione cattolica che non considerandolo una materia
meramente opzionale.

Per ora famiglie e studenti lo scelgono in massa, ma fino
a quando ciò potrà supplire alla carenza di
impegno nelle proposte educative da parte dello Stato?

Ecco, vorrei offrire queste riflessioni per un ulteriore
avanzamento in materia e mi complimento con le forze politiche
di maggioranza di cui faccio parte per aver condotto avanti
questo provvedimento. (Applausi del senatore Ciccanti).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore
Cortiana. Ne ha facoltà.

CORTIANA
(Verdi-U)
.
Signor Presidente, colleghi, nel proporre
alcune riflessioni in discussione generale rilevo che io,
proprio nel rispetto dell’Aula e del dialogo, ho ascoltato
con attenzione ciò che ha detto il senatore Gubert
e poi vorrei provare a dialogare anche con lui e quindi
con tutti quelli che sono presenti, a partire dal Governo,
perché egli ha posto alcune questioni che guardano
oltre il merito specifico del disegno di legge.

Circa il disegno di legge, noi apprezziamo la volontà
delle amministrazioni dello Stato di tradurre un impegno
concordatario registrato nella Costituzione e che già
aveva visto quest’Aula impegnata nella scorsa legislatura
(ha fatto bene a ricordarlo il collega Gubert). Abbiamo
l’impressione però che vi siano alcuni elementi
di criticità, che ci trovano dissenzienti.

Il primo riguarda la qualificazione di questi insegnanti,
la loro preparazione, la loro formazione, proprio per ciò
che ha ricordato prima il collega Gubert, quindi per l’importanza
di riuscire a rendere anche un retroterra culturale, non
soltanto un ordinamento di tipo religioso. C’è
una questione di preparazione, di competenze e di professionalità
specifica.

L’altro elemento di criticità che a noi appare
evidente è quello di una sorta di sanatoria-scambio,
che diventa ancora più preoccupante perché
si propone poi nell’ambito della mobilità, laddove
si riscontrano esuberi, come possibilità di insegnamento
anche in altre discipline. Questa è una questione
molto delicata. La prima questione è quella del rispetto
per la fatica e per il tirocinio di tutti gli altri colleghi
insegnanti, e ben fa il collega Gubert a richiamare la necessità
di un rispetto della dignità personale dell’insegnante
nell’ambito del collegio; è bene che tutto questo
si fondi su un percorso e un vissuto comuni anche nel tirocinio
che li porta all’abilitazione.

L’altro elemento di criticità, a nostro avviso,
proprio in riferimento a quei limiti sul piano della formazione,
della preparazione, è l’idea che, laddove venga
a trovarsi in esubero, un insegnante può entrare
in un ambito di mobilità anche occupandosi di altre
materie, il che diventa ancora più preoccupante.

Questi sono, diciamo, i giudizi negativi, gli elementi
per noi assolutamente problematici rispetto al disegno di
legge.

Voglio però entrare in relazione con ciò
che il collega precedentemente ha detto, che sarà
oggetto di un ordine del giorno nostro e riguarda anche
lo sforzo che, in modo particolare nell’ultimo anno,
sull’incedere della tragedia della guerra, la Chiesa
cattolica, il Papa in prima persona, ha cercato di proporre:
l’idea del dialogo interreligioso, della comprensione
e del rispetto reciproco, il non far sì che diverse
credenze religiose possano diventare strumento, maschera
per integralismi, per scontri di potere di natura politico-economica.

Su questo per fortuna la Chiesa si è spesa molto,
per ora sembra bene, e al di là delle uscite dell’imam
di Roma è apprezzabile la reazione che hanno avuto
tutti gli altri imam, tutte le altre esperienze musulmane
in Italia in questi giorni; credo che i colleghi abbiano
seguito.

Ebbene, anche noi pensiamo che sia importante la comprensione
reciproca ed è bene quindi che già oggi, nell’ambito
delle possibilità delle scuole, si faccia un lavoro
sulla storia delle religioni. In futuro, nell’ambito
della riorganizzazione dei programmi, indubbiamente storia
delle religioni va fatta anche perché abbiamo di
fronte un’integrazione europea importante e non possiamo
non vedere che il nostro retroterra comune europeo è
quello cristiano. Uso volutamente il termine "cristiano",
che poi si declina per gli italiani in modo particolare
con un’esperienza significativa in ambito cattolico,
per altri in ambito protestante. È una chiave di
lettura molto importante: noi parliamo di storia delle religioni
non solo in termini di articolazioni della cristianità,
ma come storia di tutte le religioni monoteiste. È
evidente infatti che l’immigrazione ed anche il processo
di estensione dell’Europa, tendente ad inglobare anche
una serie di paesi dell’Est, ci porta e ci porterà
al confronto con altre religioni monoteiste, innanzitutto
quella musulmana.

È bene quindi che proprio in chiave storica, di
cultura e di cultura delle religioni, per quelle implicazioni
storico-sociali che il collega Gubert richiamava prima,
vi sia un insegnamento di storia delle religioni. A mio
avviso, però, collega Gubert, ciò va realizzato
però nei termini seguenti: non tanto relativamente
alla materia di storia della religione cattolica, proprio
per quelle implicazioni, proprio perché chiunque
di noi, credente o non credente, non può disconoscere
le radici e l’entroterra particolare che ha il nostro
Paese nell’Europa. Si tratta di un aspetto che va conosciuto
e apprezzato fino in fondo, così come vanno conosciute
le altre religioni, il loro modo di proporsi, le loro radici,
che danno luogo a consumi e costumi particolari nell’ambito
delle dinamiche relazionali e sociali, ed è molto
importante conoscerle, se non vogliamo che la diversità
diventi alterità, pagandone poi il prezzo. Credo
quindi che la chiave di lettura debba essere questa.

La religione è un dono, un’illuminazione. Ho
grande rispetto per chi ce l’ha; personalmente non
ce l’ho, sento molta tensione spirituale ma non in
chiave religiosa, non credo che una diversa educazione in
materie scolastiche quando ho frequentato le scuole elementari,
medie e superiori, così come l’università,
mi avrebbe dato come istruzione ciò che non ho avuto
nella mia vita come dono, come illuminazione. Si tratta
di una questione molto delicata su cui inviterei il collega
Gubert a riflettere.

In conclusione, annuncio la presentazione di un ordine
del giorno, che è agli atti, ma su cui ho già
lavorato per modificarlo, cercando di dialogare con la curia
di Milano e con quella romana perché venisse rispettato
questo spirito, che non è quello di disconoscere
l’attuazione concordataria che si fa con questa legge,
ma proprio di riuscire nello scambio di conoscenze sulle
varie religioni a capire meglio anche altre esperienze ed
altre culture.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore
Tonini. Ne ha facoltà.

TONINI
(DS-U)
.
Signor Presidente, onorevoli rappresentanti
del Governo, colleghi senatori, la revisione del concordato
fra Italia e Santa Sede del 18 febbraio 1984 nell’ambito
dei Patti Lateranensi recepiti dall’articolo 7 della
Costituzione repubblicana ha inteso confermare l’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole di ogni ordine e
grado, esplicitandone peraltro lo status di disciplina facoltativa.

Il nuovo Concordato prevede quindi che, nel rispetto della
libertà di coscienza e della responsabilità
educativa dei genitori, sia garantito a ciascun alunno il
diritto di avvalersi o di non avvalersi dell’insegnamento
della religione cattolica.

Il Concordato prevede che l’insegnamento sia confessionale.
L’insegnamento confessionale – lo diceva prima il collega
Gubert – non va confuso con la catechesi: quest’ultima
presuppone infatti l’adesione di fede sia del docente
che del discente. L’insegnamento confessionale non
implica invece l’adesione di fede da parte del discente,
ma presuppone comunque quella del docente: ed è per
questo che il Concordato prevede che l’idoneità
del docente all’insegnamento della religione cattolica
sia attestata dall’autorità ecclesiastica. Si
può condividere o meno questa impostazione ma è
questa l’impostazione alla quale, attraverso il Concordato,
la Repubblica italiana si è impegnata.

Il nuovo Concordato del 1984 ha dato peraltro una nuova
configurazione dell’insegnamento della religione cattolica
nella scuola pubblica: a differenza di quanto stabilito
del 1929, secondo il quale l’insegnamento della religione
era una opportunità offerta alla Chiesa, che rimaneva
– questa opportunità – tuttavia estranea all’istituzione
scolastica e alle relative attività formative, il
nuovo Concordato stabilisce che l’insegnamento della
religione concorra al perseguimento degli obiettivi formativi
della scuola pubblica.

Mentre si chiarisce lo status di disciplina facoltativa
dell’insegnamento della religione cattolica, si supera
la visione ideologica, di stampo idealistico, che considerava
la religione come uno stadio primitivo e infantile della
coscienza, in favore di una visione pluralista delle vie
al sapere: la via scientifica, quella filosofica, quella
artistica e quella religiosa. E in favore di una visione
che enfatizza anche il ruolo civile della religione, di
quella cattolica in specie. Pur restando nell’alveo
dell’insegnamento confessionale, il nuovo Concordato
dilata quindi la funzione culturale e la responsabilità
anche civica dell’insegnante di religione nella formazione
degli allievi, pur mantenendo ed anzi irrobustendo le garanzie
alla libertà di coscienza di allievi e famiglie attraverso
il principio della facoltatività.

In altra sede sarà opportuno e necessario ragionare
sulla necessità di arricchire ulteriormente l’offerta
formativa della scuola italiana nel campo sempre più
attuale – a dispetto di ogni superficiale lettura della
secolarizzazione – della fenomenologia religiosa, del suo
complesso intrecciarsi con il passato, il presente e il
futuro della civiltà umana. Così come sarà
tutt’altro che peregrino interrogarsi sulla possibilità
di corrispondere a questa crescente domanda, tipica di una
società come la nostra che vive la sfida per molti
versi inedita del pluralismo religioso, con il solo strumento
dell’insegnamento confessionale e sulla connessa necessità
che esso sia completato da più ampi spazi di confronto
interconfessionale e di insegnamento laico.

Su questi temi la 7a Commissione avviò nella scorsa
legislatura una riflessione ad ampio raggio, della quale
fu intelligente e appassionato relatore il collega Brignone,
e che suscitò l’attenzione e l’interesse
dei ministri Berlinguer e De Mauro e della stessa Conferenza
episcopale: una riflessione che sarebbe bene riprendere
e rilanciare.

Oggi è alla nostra attenzione una questione più
circoscritta, anche se tutt’altro che svincolata dai
temi di sfondo fin qui evocati: è la questione che
riguarda lo stato giuridico dei docenti di religione, cittadini
italiani, ormai nell’80 per cento dei casi laici, cioè
né sacerdoti né religiosi, lavoratori pubblici,
dipendenti dello Stato e tuttavia fin qui soggetti ad una
anacronistica condizione di licenziabilità ad nutum,
a seguito della loro insuperabile – almeno nell’ambito
dell’attuale Concordato – dipendenza dal "nulla
osta" ecclesiastico che, in ragione del carattere confessionale
dell’insegnamento, non può non essere revocabile.

Nel firmare l’intesa con la Conferenza episcopale
italiana, lo Stato italiano si impegnava, quasi venti anni
fa, a definire lo stato giuridico degli insegnanti di religione.
A questo ritardo voleva porre fine il disegno di legge presentato
nella scorsa legislatura dalle forze politiche del centro-sinistra
e approvato dall’Assemblea del Senato del 19 luglio
del 2000.

La fine della legislatura non consentì di completare
l’iter col voto della Camera. Tuttavia, avvalendosi
del lavoro iniziato nella scorsa legislatura dall’Ulivo
– come ha correttamente riconosciuto il relatore, senatore
Brignone -, l’attuale Governo ha approvato un nuovo
disegno di legge al quale il centro-sinistra, che nella
scorsa legislatura aveva votato quell’analogo provvedimento,
non può non guardare, almeno a mio avviso, con apertura
e simpatia. È buona norma, nella democrazia dell’alternanza,
non dismettere dall’opposizione i panni della cultura
di Governo, se al Governo si intenda tornare e se si consideri
l’opposizione una condizione e non un principio identitario.

Al tempo stesso, non si possono non rilevare nell’attuale
testo governativo, così come è stato licenziato
dalla Camera dei deputati, modifiche all’impostazione
da noi proposta nella scorsa legislatura che, a mio avviso,
rischiano di turbare il riconoscimento di un diritto e la
promozione di un’importante figura professionale.

Se si vuole evitare questo rischio, è a mio modo
di vedere opportuno che il testo all’esame dell’Aula
sia emendato in tre punti circoscritti, ma qualificanti,
accomunati dalla medesima preoccupazione che si affermi,
nel testo di legge e nel suo recepimento vivente, nella
comunità scolastica e in quella civile nel suo complesso,
una visione lungimirante dell’interesse degli insegnanti
e dell’insegnamento della religione cattolica.

In primo luogo, è necessario che la mobilità
verso altro insegnamento per i docenti di religione cattolica
che abbiano avuto la revoca del nulla osta ecclesiastico
sia consentita solo dopo un congruo periodo di tempo (sono
stati proposti cinque anni, ma si può discutere su
questo) dall’assunzione in ruolo e che i posti vacanti
per revoca non siano messi a concorso per un periodo altrettanto
congruo. Si tratta di porre un vincolo ragionevole che eviti
anche il solo sospetto che la nuova disciplina sullo stato
giuridico degli insegnanti di religione cattolica possa
prestarsi a dar vita ad un sistema parallelo di reclutamento,
rispetto a quello previsto per legge per tutti gli insegnanti.

In secondo luogo, per la partecipazione alle procedure
concorsuali – beninteso, a regime, non in prima applicazione
– deve essere richiesto, a nostro avviso, il possesso di
un diploma di laurea, per non derogare al principio che
tutto il corpo docente della scuola italiana sia munito
di questo requisito qualitativo.

È un’esigenza in qualche modo riconosciuta
anche dalla Chiesa cattolica. Ricordo un’intervista
rilasciata al quotidiano "l’Unità"
del 12 aprile 2000 da monsignor Attilio Nicora, allora delegato
della presidenza della Conferenza episcopale italiana per
le questioni giuridiche, il quale diceva: "Anche noi"
– intendendo i vescovi – "siamo interessati ad elevare
la qualificazione professionale. I maestri, per esempio,
dovranno essere dotati di una laurea. Così i professori
del ciclo secondario delle scuole superiori, oltre alla
laurea, devono seguire e superare corsi di specializzazione.
Riteniamo, perciò, che in prospettiva vada innalzato
anche il livello culturale dell’insegnante di religione
per essere alla pari con i colleghi di altre materie".
Questi erano i termini del dibattito di allora. Si possono
trovare modi diversi per innalzare il livello culturale
dell’insegnante di religione, ma l’obiettivo va
posto esplicitamente.

Noi aggiungiamo che dal riconoscimento dell’insegnamento
della religione cattolica quale disciplina dalla natura
culturale e formativa, e non catechistica, non può
non derivare la necessità di una maggiore qualificazione
culturale del corpo docente preposto a tale insegnamento.
Ciò in una visione non miope dello stesso interesse
degli insegnanti di religione: una categoria che spesso
si è sentita emarginata e non adeguatamente valorizzata,
all’interno dello stesso collegio dei docenti.

Infine, a nostro avviso va stabilito che nel primo concorso,
accanto alla verifica della conoscenza dell’ordinamento
scolastico, vi sia una prova di cultura generale. Anche
qui si vuole rafforzare la valenza culturale del provvedimento
in esame, che in nessun caso deve poter essere visto come
una misura di favore, a vantaggio o addirittura a privilegio
di una categoria contro altre categorie di insegnanti.

Riteniamo che la prova di cultura generale, in particolare
nel settore delle discipline storiche e filosofiche, accanto
a quella in campo didattico e pedagogico, rappresenti un’ulteriore
modalità di verifica delle competenze in possesso
degli aspiranti all’ammissione in ruolo, ai quali,
a seguito del superamento del concorso, si assicurano finalmente
– e sottolineo "finalmente" – una posizione giuridica
e diritti pari a quelli del corpo docente nel suo complesso.
(Applausi dei senatori Zavoli e Soliani).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore
Ciccanti. Ne ha facoltà.

CICCANTI
(UDC)
.
Signor Presidente, onorevole rappresentante
del Governo, onorevoli colleghi, come è stato da
più parti ricordato il disegno di legge in esame
persegue l’obiettivo del superamento della condizione
di precariato degli insegnanti di religione cattolica. Questo
avviene attraverso l’attribuzione dello stato giuridico
del personale docente di ruolo dello Stato e la regolarizzazione
con apposite procedure concorsuali delle modalità
di reclutamento.

Ad alcune critiche sollevate dal centro-sinistra, qualcuna
anche polemica, va fatto osservare, come ricordavano i colleghi
Gubert e Tonini, che già nel luglio del 2000 la maggioranza
di centro sinistra di allora approvava un disegno di legge
analogo che non chiudeva il proprio corso a causa della
fine della XIII legislatura. Non si tratta quindi di una
legislazione di favore ma del riconoscimento di un ruolo
e di una funzione che trae origine dal rispetto della laicità
dello Stato.

La Corte costituzionale, nella sentenza n. 203 del 1989,
ha riaffermato il principio supremo della laicità
dello Stato quale uno dei profili della forma di Stato delineata
dalla Costituzione che ha valenza superiore rispetto ad
altre norme e leggi, anche di rango costituzionale, come
per esempio il ricordato articolo 7 della Costituzione.
Il principio di laicità dello Stato si desume dall’ordito
di principi e valori contenuti nella inviolabilità
dei diritti della persona, prevista già dall’articolo
2; dal principio di uguglianza, previsto dall’articolo
3; dalla libertà religiosa, prevista dall’articolo
19 oltre ad altri valori che si rilevano negli articoli
7, 8 e 20 della Costituzione per annessa materia.

Laicità dello Stato non significa però indifferenza
dello Stato alla religione; anzi, il principio di laicità
dello Stato implica la garanzia della salvaguardia della
libertà religiosa in un pluralismo confessionale
e religioso. L’insegnamento della religione cattolica
nelle scuole di Stato di ogni ordine e grado, esclusa l’università,
è impartito, secondo la legge n. 121 del 1985, sulla
scorta di una scelta che non è ideologica e non è
confessionale. Due sono gli ordini di valutazione che la
rendono compatibile con gli articoli 3 e 19 della Costituzione
dianzi ricordati. Il primo è il valore formativo
della cultura religiosa, quindi non una religione ma un
pluralismo religioso della società civile. Il secondo
è l’acquisizione dei principi del cattolicesimo
al patrimonio storico del popolo italiano, alla pari del
riconoscimento del cristianesimo come patrimonio storico-spirituale
da inserire nella convenzione europea che è dibattito
di questi giorni.

Tale insegnamento, secondo la Corte, è al servizio
di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei
cittadini, quindi valore della cultura religiosa come genus
e appartenenza dei principi del cattolicesimo al patrimonio
storico del popolo italiano come species.

È su questo sfondo di lettura politica che va quindi
inquadrato il provvedimento legislativo, dove l’insegnamento
della religione cattolica è insegnamento di principi
che permeano la coscienza civile del popolo italiano. La
coscienza civile degli italiani, però, non è
intesa in termini totalizzanti, essa si inquadra – come
dicevamo – in una trama di diritti soggettivi costituzionalmente
garantiti. Sicché la libertà di coscienza
ed educativa dei genitori e degli studenti delle scuole
superiori si concretizza con la libera scelta, quindi con
l’autodeterminazione di avvalersi o meno di tale insegnamento,
come è stato ricordato.

Pertanto, c’è l’obbligo per lo Stato di
assicurare l’insegnamento della religione cattolica,
derivante anche dagli accordi con la Santa Sede, ma la facoltà
per gli studenti di avvalersene.

La stessa Corte, con la sentenza n. 13 del 1991, ha sancito
quindi il non obbligo degli studenti di avvalersi dell’insegnamento.

Risolto il problema dell’obbligatorietà per lo Stato
di assicurare l’insegnamento della religione cattolica,
va chiarito il problema di chi deve insegnare. Attualmente
è il Capo di istituto che conferisce incarichi annuali
d’intesa con l’Ordinario diocesano. Perché "d’intesa
con l’Ordinario diocesano"? Perché l’idoneità
all’insegnamento religioso è riconosciuta dall’autorità
ecclesiastica, in quanto come ha sintetizzato la Corte,
esso è impartito in conformità alla dottrina
della Chiesa.

Ha fatto discutere qualche tempo fa la revoca dell’idoneità
per un’insegnante di religione in quanto ragazza madre.
Va però fatto osservare che tale idoneità
è riconosciuta – e quindi revocata – dal canone n.804
del codice di diritto canonico; quindi: retta dottrina,
testimonianza di vita cristiana, abilità pedagogica.

Tale ricezione nel nostro ordinamento positivo di altro
ordinamento giuridico è perfettamente in linea con
la norma pattizia di cui all’articolo 7 della Costituzione;
sul riconoscimento di questi ordinamenti autonomi si spese
il Santi Romano, che rimane una delle pietre miliari del
nostro diritto.

Tale tesi è stata riaffermata dalla Corte anche
nella recente sentenza n. 343 del 1999. Quindi, l’unico
problema che rimaneva aperto è quello del rapporto
di lavoro: a tempo determinato con incarichi annuali, o
a tempo indeterminato?

Questo disegno di legge, ferme ed acquisite tutte le altre
valutazioni che ho richiamato, risolve quest’ultima questione
relativa al rapporto di lavoro: finisce il precariato.

L’onorevole La Malfa, alla Camera, nel dichiararsi contro
si è posto problemi non di principio ma di funzionalità
della legge: la disparità di trattamento (e quindi
la violazione del principio di uguaglianza) nel caso di
revoca dell’idoneità da parte dell’Ordinario diocesano.

Mentre l’onorevole Villetti, nel dichiararsi contro per
conto dei socialisti, si è posto il problema pure
della funzionalità della legge, in riferimento all’interferenza
di una costola educativa di tipo confessionale, così
ha dichiarato, nella struttura della scuola pubblica.

Ritengo che le questioni da loro sollevate siano reali,
ma porle per dichiarare un voto contrario, rischiano una
valutazione sproporzionata rispetto ai problemi che invece
vengono risolti con questo disegno di legge.

Abbiamo assistito troppe volte alla diversità di
trattamento di questi insegnanti, ai quali è stata
preclusa l’ammissione alle sessioni riservate degli esami
di abilitazione in concorsi riservati, pur avendo durata
di servizio e titolo di studio richiesto, alla pari di altri
docenti, solo perché il servizio prestato è
basato su specifici profili di qualificazione professionale
che non costituiscono titolo di accesso ad altri insegnamenti.
Così il giudice amministrativo.

Ebbene, con il doppio ruolo regionale di cui all’articolo
1, comma 1, e con il comma 3 dell’articolo 4 di questo disegno
di legge finalmente si supererà questa preclusione,
così come si supererà anche la precarietà
rappresentata dalla spada di Damocle della revoca dell’idoneità,
utilizzando la mobilità di cui al ricordato comma
3 dell’articolo 4. Anche questo era un problema di libertà.

Dovrebbe pertanto esserne più felice che preoccupato
l’onorevole La Malfa di questo istituto normativo che salvaguarda
il rapporto di lavoro nonostante il venir meno del rapporto
fiduciario con l’Ordinario diocesano; ossia il prevalere
del nostro ordinamento rispetto a quello canonico recepito
per via pattizia.
Così come dovrebbero tranquillizzarsi coloro che
temono l’interferenza della Chiesa nell’organizzazione
scolastica. La Corte, con la ricordata sentenza n. 390 nel
1999, ha ben ragionato, ritenendo che "l’intervento
dell’Autorità ecclesiastica nel procedimento
di conferimento dell’incarico costituirebbe una forma
di partecipazione all’organizzazione di un servizio
che è reso nella scuola e nel quadro delle finalità
della scuola, ma che non sarebbe interamente della scuola".
Infatti, "la Chiesa, concorrendo a determinare i programmi,
le modalità di organizzazione, i criteri per la scelta
dei libri di testo e i profili della qualificazione professionale
degli insegnanti, secondo il protocollo addizionale dell’Accordo
di revisione del Concordato, assumerebbe le responsabilità
di un insegnamento confessionale nei riguardi del quale
lo Stato rimane aperto e disponibile, giacché riconosce
la cultura religiosa e i princìpi della religione
cattolica come parte del patrimonio storico del popolo italiano".
Così ha ragionato la Corte, che non è una
sezione distaccata della Santa Sede!

Nel momento in cui si riconosce questo, non si può
negare alla Chiesa di disciplinare tale insegnamento secondo
una propria autonomia che garantisce la coerenza con la
dottrina della Chiesa stessa. Potrebbe questa coerenza essere
definita da altri, magari atei o di altra religione, come
qualcuno ha invocato? In tal modo verrebbero meno le garanzie
in merito sia al riconoscimento del comune patrimonio culturale
della Nazione sia ai princìpi pattizi dianzi ricordati.

Sono queste le ragioni, laiche e di diritto positivo, di
tutela dei lavoratori e della loro dignità professionale,
troppe volte discriminata e resa precaria, che ci muovono
politicamente, come UDC, ad esprimere un voto favorevole.
Non sono logiche elettoralistiche o di parte, che qualcuno
ha ingiustamente voluto far prevalere.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare il senatore
Pedrizzi. Stante la sua assenza, si intende che abbia rinunciato
all’intervento.

È iscritto a parlare il senatore Passigli. Ne ha
facoltà.

PASSIGLI
(DS-U)
. Signor Presidente, l’obiettivo del
disegno di legge è chiaro: si tratta di introdurre
una parificazione degli insegnanti di religione cattolica
rispetto agli altri insegnanti con riguardo allo status
giuridico ed economico.

L’obiettivo è sicuramente condivisibile, ma
l’articolato non lo è perché, a nostro
avviso, lede alcuni princìpi costituzionali che richiamerò
– malgrado quanto detto ora dai colleghi, mi sembra che
la lesione permanga -, e incontra alcuni altri possibili
rilievi di merito.

La prima considerazione riguarda la circostanza che la
proposta di legge in esame, all’articolo 3, affida
chiaramente la selezione degli insegnanti alle istituzioni
di un altro ordinamento, molto più di quanto non
avvenisse nel precedente disegno di legge, approvato durante
la scorsa legislatura.

Il testo in esame, all’articolo 3, prevede che l’accesso
ai ruoli avvenga tramite concorsi per titoli ed esami. I
titoli sono quelli di cui all’Intesa, cioè quelli
previsti da norme pattizie che, ai sensi dell’articolo
7 della Costituzione, non possono essere modificate unilateralmente,
ma soltanto con il consenso di entrambi i contraenti.

Il punto debole non riguarda tanto i titoli, stabiliti
da norme pattizie, bensì l’istituto del concorso.
Questo è in realtà una fictio perché,
così come disciplinato dall’articolo 3, è
limitato all’accertamento di una preparazione culturale,
generale e didattica, con esclusione – e questo ci sembra
più che logico – dei contenuti specifici dell’insegnamento
della religione cattolica, la cui valutazione è rimessa
alla autorità diocesana attraverso l’istituto
dell’autorizzazione a svolgere l’insegnamento.

Ma l’accertamento della preparazione culturale, generale
e didattica, è in realtà un qualche cosa che
poi si rivelerà molto ostativo a un possibile passaggio
ad altra funzione nell’ambito dell’ordinamento
didattico, qualora venga meno il gradimento da parte dell’autorità
diocesana, cioè se avviene la revoca.

Infatti, non si vede come questa preparazione culturale,
generale e didattica, possa o debba essere accertata venendo
meno il requisito, previsto nella precedente legge, del
possesso, ad esempio, di una laurea. Addirittura, al comma
2 dell’articolo 5, si dice che il programma di esame
del primo concorso – ed è presumibile che il primo
concorso immetta nei ruoli una quantità molto rilevante
degli insegnanti di religione precari – è volto unicamente
all’accertamento della conoscenza dell’ordinamento
scolastico, degli orientamenti didattici e pedagogici relativi
agli ordini e ai gradi di scuola ai quali si riferisce il
concorso e nulla più: gli elementi essenziali della
legislazione scolastica. Come può, un concorso del
genere, costituire la base per un accesso stabile ai ruoli
della funzione didattica? Stiamo violando il principio costituzionale
dell’accesso alla pubblica amministrazione per concorso.
Questo concorso – torno a dirlo – è una fiction:
in realtà vi è solo il possesso dei titoli
di cui all’Intesa e quindi vi è solo la funzione
dominante, in questo caso, per quanto riguarda l’accesso,
dell’autorità di altro ordinamento.

In realtà, siamo di fronte ad un chiaro caso in
cui la reale preparazione e capacità a svolgere non
il ruolo di insegnante di religione, ma il potenziale futuro
ruolo di insegnante di altra materia, non viene minimamente
accertata.

Abbiamo uno strano mix, in questa legge. Il recepimento
di norme pattizie è chiarissimo per quanto riguarda
l’accesso al ruolo e la risoluzione del rapporto. Addirittura,
l’assunzione con contratto di lavoro a tempo indeterminato
– a valle quindi dell’esame dei titoli e dell’ottenimento
del gradimento dell’autorità diocesana e dell’espletamento
di questo finto concorso – avviene attraverso un disposto
del dirigente regionale "di intesa con" l’ordinario
diocesano. Anche questo è singolare: si entra nella
pubblica amministrazione italiana attraverso un atto delle
autorità italiane, che potrebbero limitarsi a recepire
e a riscontrare l’esistenza del gradimento, non con
un atto di intesa. Ma, soprattutto, si esce dalla funzione
specifica di insegnante di religione esclusivamente attraverso
un atto – che ho già detto di ritenere giusto nella
sostanza – di un’autorità di altro ordinamento.

Un mix, quindi, di norme pattizie che vengono recepite
anche indebitamente, eccessivamente nell’ordinamento
italiano, e norme esclusivamente italiane: quelle che regolano
che cosa avviene dell’insegnante nel momento in cui
viene a perdere l’idoneità concessagli a suo
tempo dall’ordinario diocesano.

A quel punto, norme esclusivamente italiane introducono
una chiara disparità di trattamento con altri insegnanti,
proprio perché – come ho detto – non vi è
nessuna verifica della capacità di insegnare materie
diverse dalla religione cattolica, e quindi vi è
un accesso nei ruoli che poi porta ad un trasferimento ad
un altro ruolo in sostanziale violazione di parità
di trattamento, quindi una sostanziale violazione dell’eguaglianza
davanti alla legge di tutti i cittadini, come prevede l’articolo
3 della Costituzione.

Potremmo argomentare che questa disparità di trattamento
avviene anche nei confronti di altri culti, e qui entreremmo
in tutt’altra problematica, cioè in una lettura degli
articoli 8, 19 e 20 della Costituzione, che sanciscono che
tutte le religioni sono egualmente libere. Certo, se però
si danno i mezzi potenti della promozione dello Stato per
una religione, chiaramente questa eguaglianza, a cui la
Costituzione fa esplicito e ripetuto cenno, viene sicuramente
di fatto limitata. Quindi, vi è sicuramente un problema
interpretativo di quanto la nostra Costituzione voglia dire.
Ma la vera violazione – torno a dire – è dell’articolo
97 della Costituzione, che prevede l’accesso ai ruoli per
pubblico concorso, visto che qui il pubblico concorso non
c’è. Vi è , lo ripeto, la contraddizione profonda
tra la risoluzione del rapporto di lavoro, che è
affidata a norme pattizie e una mobilità professionale,
interamente disciplinata invece da norme dell’ordinamento
italiano, ma in violazione della parità di trattamento
di tutti i cittadini davanti alla legge.

Credo, quindi, che questo provvedimento non possa avere
il voto favorevole di quanti leggono la nostra Costituzione
non con il vecchio spirito di un laicismo che ha confinato
storicamente, a volte, nell’anticlericlarismo. Ieri, insieme
ad altri colleghi di formazione laica, e con la preziosa
consulenza del senatore Tonini, abbiamo presentato un ordine
del giorno in cui si dice che, se nel preambolo della Costituzione
europea si farà menzione delle componenti culturali
che hanno contribuito storicamente all’identità europea
– ed io credo che ciò sia inopportuno -, cominciando
con le civiltà greca e romana, proseguendo con l’umanesimo
e con la filosofia dei lumi, è certo che non si possa
non fare esplicita menzione del cristianesimo come radice
profonda dell’identità comune europea. E, proprio
per ribadire questo spirito, hanno firmato questo ordine
del giorno, insieme al senatore Tonini, anche senatori di
chiara origine e di cultura politica laica, come i colleghi
Manzella, Ayala oltre a chi vi parla.

Proprio in questo spirito, l’obiezione anche di natura
costituzionale a questo provvedimento non verte – ho citato
anche molte ragioni di dubbio anche da quel punto di vista
– sul ruolo privilegiato che il Concordato ha indubbiamente
dato alla religione cattolica rispetto ad altri culti, ma
sulla concreta organizzazione di come tutelare gli insegnanti
di religione e come superare il loro precariato. Sicuramente
vi è – ripeto – una violazione dell’articolo 97 della
Costituzione, e questo dovrebbe far riflettere anche coloro
che sono favorevoli a questo provvedimento.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale.

Essendo stata fatta richiesta da parte del relatore di
svolgere la sua replica in altra occasione, rinvio il seguito
della discussione dei disegni di legge in titolo ad altra
seduta.

Sospendo brevemente la seduta in attesa dellaconclusione
della Conferenza dei Capigruppo.

(La seduta, sospesa alle ore 12,13, è ripresa alle
ore 12,29).

Presidenza del vice presidente FISICHELLA

Onorevoli colleghi, la Conferenza dei Capigruppo sta concludendo
i propri lavori.

Per intanto, è già fissato l’ordine
del giorno della seduta pomeridiana di oggi, che avrà
inizio alle ore 16,30. Tale ordine del giorno prevede il
seguito della discussione del disegno di legge in materia
di applicazione della pena su richiesta delle parti; il
seguito della discussione del disegno di legge sugli insegnanti
di religione cattolica e il seguito del disegno di legge
sulla sospensione condizionata della pena.

Interpellanze e interrogazioni, annunzio

PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza
interpellanze e interrogazioni, pubblicate nell’allegato
B al Resoconto della seduta odierna.

Ricordo che il Senato tornerà a riunirsi in seduta
pubblica oggi, alle ore 16,30, con l’ordine del giorno
testé annunciato.

La seduta è tolta (ore 12,30).

 

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