Pensare l’identità in maniera nuova


Pensare l’identit in maniera nuova


I N T RO DU Z I O N E


Isabella Stengers scriveva nel 1985; “Noi siamo radicati in una cultura che ha privilegiato i sistemi semplici ! e ha definito gli strumenti che sono adatti a questi sistemi (La Stengers dice questo nel libro dal titolo: “La sfida della complessit” edito da Feltrinelli nel 1985).


Tale tendenza a privilegiare i sistemi semplici, si e imposta a partire dall’epoca della rivoluzione scientifica; fu allora che l’universo comincio ad essere concepito come una grande “Machine” (“macchina”) composta di ingranaggi obbedienti a leggi che possono vantare una verit assoluta e sono del tutto trasparenti alla ragione.


Tale concezione si e trasmessa a noi ancora fino ad oggi.


Valga un solo esempio: la filosofia idealistica e assai distante dalla concezione meccanicista del Seicento, poich come noto l’idealismo interamente fondato sul presupposto della libert-finalit (teleologia) del Geist (Spirito) che l’opposto di ogni concezione meccanicista; e tuttavia la concezione meccanicista e quella idealistica concordano nel ricondurre entrambe la realt del molteplice ad un principio supremamente unitario e semplice. Del resto tutta l’operazione filosofica kantiana (non a caso Kant sta cronologicamente nel mezzo tra meccanicismo seicentesco e cultura idealistica) consiste proprio nel riportare il molteplice all’unita della conoscenza (unita garantita, come e noto dall’”Io penso”).


Ora, non vi e dubbio che, dietro tale ossessione di voler a tutti i costi ricondurre la realt a un principio unitario? ci sta l’orrore della complessit come tale: l’orrore di una realt che, in quanto complessa viene avvertita come enigma, come vertigine, come un qualcosa che eccede (va oltre) le nostre capacit conoscitive. Da un tale orrore nato il sogno della conoscenza come controllo e governo di ci che appare come diverso.


Sennonch, a partire soprattutto dagli anni Settanta si sviluppato tutto un orientamento di pensiero che ha proceduto ad una rivalutazione della complessit non pi percepita come qualcosa di negativo, come qualcosa da “rendere semplice” a tutti i costi, ma piuttosto come un qualcosa che ci provoca costantemente, che ci rivolge delle sfide ben precise, che ci obbliga a misurarci e confrontarci con essa.


Citiamo in questa sede i nomi dei maggiori fra gli studiosi che hanno scritto sul tema della complessit e i cui saggi in buona parte hanno visto la luce in edizione italiana. Basti ricordare; Henri Atlan, Gregory Bateson, Niklas Luhmavnnz, Edgar Morin, Ilia Prigogine.


Gli interventi di tali studiosi sul tema della complessit sono stati raccolti nel volume in lingua italiana dal titolo “La sfida della complessit” edito da Feltrinelli nel 1985 (gi citato all’inizio).


Proviamo ancora a chiederci a quali conclusioni pervenuto tale dibattito sulla complessit. Per evidenti limiti di spazio siamo costretti a indicare le acquisizioni pi fondamentali:


A) COMPLESSITA’ E ALTERITA’


La complessit non va esorcizzata anzitutto perch essa in stretto rapporto con l’alterit. Si pu pi esattamente affermare che la complessit custodisce l’alterit. Noi scopriamo veramente la realt solo quando la scopriamo come “realt altra”, cio come una realt che una volta guardata, non ci restituisce pi l’immagine speculare di noi. La realt ci appare come altra quando in essa non solo ravvisiamo enigmi e oscurit, ma anche aperture e possibilit inattese. I1 mondo inizialmente sembra accoglierci ospitale, presentandosi come sostanzialmente simile e omologo a noi; ma un bel giorno all’improvviso, ci obbliga a riconoscerlo come differente da noi. E quando percepiamo tale differenza tra noi e il mondo e la percepiamo in tutta la sua seriet e profondit possiamo davvero dire che sta avendo inizio il processo lungo e faticoso della nostra maturit di uomini.


B) COMPLESSITA’ E UMILIAZIONE DELL’EGO


Un altro fondamentale valore legato all’apparire della complessit sicuramente una salutare umiliazione del nostro io.


Detto con parole pi difficili: la complessit fa saltare in aria ogni atteggiamento logocentrico ed egoreferenziale (vale a dire ogni atteggiamento che pone al centro di tutta la realt il pensiero o l’Io).


Non vi e dubbio che una parte cospicua della filosofia moderna abbia compiuto un preciso tentativo: quello di “salvare” e mettere al riparo dal flusso travolgente della complessit almeno un polo, ed esattamente il polo della soggettivit, che di volta in volta stato denominato con i termini di “pensiero”, “io”, “coscienza”, “soggetto” (termini tutti equivalenti). Proprio in tale ottica che stiamo definendo come “volont di salvataggio” si pu comprendere appieno quel processo caratterizzante lo sviluppo della filosofia moderna che gli storici hanno definito “trionfo del principio d’immanenza“. Si tratta, come noto, del processo consistente nel crescente guadagno di rilevanza del soggetto in parallelo con la progressiva perdita di quota dell’oggetto.


Una vera propria “intronizzazione” del soggetto a partire da Cartesio, per il quale il soggetto diventa l’unico fondamento di ogni certezza nell’oceano del dubbio radicale; a Berkeley, per il quale l’essere stesso dell’oggetto si riduce ad un “essere percepito” dal soggetto (“Esse est percipi”); a Kant, per il quale l’oggetto sarebbe destinato a rimanere mero caos e perci non diventerebbe mai oggetto conoscibile se il soggetto non imponesse all’oggetto un suo ordinamento mediante l’a priori di cui il soggetto fornito; fino al delirio idealistico della riduzione al soggetto dell’intera realt con la conseguente negazione di ogni trascendenza e di ogni arcano. Non si dimentichi che, con Hegel, lo sviluppo dialettico del Geist (Spirito) conduce nientemeno che alla “Offenbarung der Tiefe” (“Rivelazione del Profondo”), nel senso che lo sviluppo del Geist si identifica con il dispiegarsi della realt nella sua interezza si che assolutamente nulla di oscuro e di occulto pu rimanere dietro tale rivelazione-dispiegamento; di ogni arcano e di ogni mistero si d semplicemente il “toglimento” (“Aufhebung”); ogni “complessit” destinata a diventare “semplice” nella piena autotrasparenza dello Spirito. Chiediamoci ora: il pensiero che difende i diritti della complessit, come si pone nei confronti di questa parabola della filosofia moderna test delineata? La risposta che il pensiero della complessit assume nei confronti di quel processo un atteggiamento critico – contestativo nel senso che anzitutto ne rifiuta l’assolutizzazione del pensiero o dell’io; l’io non un assoluto; l’io e il pensiero in qualche modo esistono, esprimono certamente ordine e valore, ma la loro esistenza non potr mai essere concepita come autoreferenziale. La modalit dell’io e del pensiero non potr mai essere l’autorispecchiamento “chiuso” ma piuttosto la relazione aperta: una relazione che ha ben poco di una pre-visione calcolata e ha molto dell’avventura; ed il compito dell’Io e del pensiero non quello di ritrovare se stesso nella realt, ma piuttosto il confronto con il dissimile, la negoziazione con esso, la scoperta di un orizzonte insospettato di convivenza con il diverso che genera una nuova fisionomia dello stesso pensiero e dello stesso Io (lungi dal distruggerlo).


Ma a tutto ci si arriva accettando quella condizione di turbolenza e di tensione che viene definita “complessit”. Perci nel titolo di questo paragrafo accennavamo alla necessita di un profondo esercizio di umilt da parte dell’Io-Pensiero (“Umiliazione dell’Ego”).


C) L’Io complesso


Ma il dato che forse il pi decisivo in un discorso sulla complessit, consiste nell’ormai acquisita consapevolezza che non solamente la realt esterna all’Io estremamente complessa e non si lascia facilmente ridurre a quegli schemi o a quei reticoli nei quali il soggetto tenta di catturarla e ingabbiarla, ma piuttosto l’Io stesso che oggi ci appare molto pi complesso di quanto non lo pesassimo tale nel passato.


E’ pur vero che ancora oggi non mancano scienziati e antropologi (studiosi dell’uomo) che rimangono ancorati a una concezione biologistica dell’uomo, nel senso che fanno dipendere tutto il comportamento umano dal funzionamento del sistema nervoso centrale. Basti ricordare che Salomon Katz, in un suo saggio di antropologia sociale afferma testualmente:” il comportamento un prodotto della neuroarchitettura del sistema nervoso centrale e delle sue funzioni”.


E gli fa eco il bioetologo Michael Chance quando afferma:” Allorch avremo inglobato i comportamenti dell’uomo nella biologia, avremo effettivamente inglobato nella scienza la totalit dell’esperienza umana .. .. Ci che ci serve un sistema di pensioro biologico organizzato che includa la cultura nel novero delle disposizioni biologiche dell’uomo”.


Ora, in tali affermazioni, e in tante altre dello stesso autore, c’ indubbiamente una parte di verit poich innegabile scientificamente che ad ogni “zona” o “settore” del cervello umano corrisponde una determinata attivit o funzione psichica; stata per esempio individuata e localizzata la zona che presiede all’ansia, lo strato della corteccia che presiede al controllo e alla inibizione degli impulsi, la zona che coinvolta nei comportamenti aggressivi e via seguitando.


Il limite di tali concezioni biologistiche consiste nel non rendersi conto che la componente biologica solo una delle cause del comportamento umano e che perci da sola non in grado di spiegarlo compiutamente. Facciamo un solo esempio: uno scienziato europeo che sa tutto di biochimica e di neurofisiologia, ma non sa nulla dei codici culturali e dei modelli di valori e di comportamento di due giovani innamorati australiani, osservando il loro approccio amoroso, si render conto che nessuna biochimica o neuorofisiologia in grado di chiarirgli i gesti, i simboli, le allusioni, i sottintesi presenti nell’approccio amoroso dei due giovani.


La verit che assieme ai dispositivi neurobiologici, operano in “sinergia” (come oggi si usa dire) tante altre cause o fattori che determinano un certo comportamento e si tratta in prevalenza di cause culturali (codice morale, idee religiose, visione del mondo, ecc.).


L’Io dunque estremamente complesso: esso una rete di matrici molteplici, matrici esogene non meno che endogene, le quali operano in modi assai diversi, irregolari, intrecciati e si offrono a molteplici attribuzioni di senso.


Perci si tratta di passare da una concezione solamente psico-logica dell’uomo ad una concezione persono-logica; vale a dire da un sapere centrato sulla mente a un sapere centrato sulla persoa; una persona che tale non sulla base di una immutabile struttura metafisica che si connota ma a partire dal multiverso e multiforme rapporto che instaura col mondo esterno.


D) Una “nuova” identit


L’identot dunque di ognuno di noi va pensata in maniera radicalemte nuova. Dobbiamo renderci conto del fatto che si tratta di una:



  1. Identit molteplice
  2. Identit pratico-etica
  3. Identit contestuale
  4. Identit peculiare
  5. Identit ritrovata


  1. Identit molteplice

    L’identit anzitutto molteplice: essa una “Multiple self“, secondo l’efficace formula adoperata da Jon Elster nel suo saggio del 1991 intitolato “L’Io multiplo” edito in lingua italiana da Feltrinelli. La nozione di “identit molteplice” richiama subito alla nostra memoria il Vitangelo Moscarda di Pirandello, che , come noto, il protagonista del romanzo “Uno, nessuno e centomila”. La differenza per decisiva; il personaggio pirandelliano infatti soffre dolorosamente la sua frantumazione poich sperimenta l’orrore del nulla e del vuoto, l’assenza dell’essere e del valore (su questo “orrore del nulla” che alla base di tutte le nevrosi dei personaggi pirandelliani, ha scritto pagine suggestive il Querci nel suo saggio del 1992 dal titolo “Pirandello e l’inconsistenza dell’oggettivit” edito da Laterza).


    Nel saggio di Elster invece “Molteplicit dell’Io” non vuol dire frantumazione e dispersione e ancor meno negativit e vuoto. Vuol dire invece disponibilit positiva ad aperture plurime, capacit di inserimento attivo nei labirinti di cui fatta la realt che siamo e che attraversiamo. In fondo, il carattere molteplice dell’Io si configura come tensione, sempre sussistente nell’Io, tra una mai sopita esigenza di unit e una spinta altrettanto forte verso la diversit insita nel mutamento. Le metafore che meglio esprimono tale tensione dell’Io sono quelle della danza e della metamorfosi. La metafora della danza sicuramente niciana (non si dimentichi che Ferruccio Masini nel suo saggio “Lo scriba del caos” ha potuto interpretare il pensiero di Nietzsche come un “Pensiero danzante”); la metafora della metamorfosi invece di Elias Canetti ed sicuramente presente nel suo saggio “Massa e potere“; peraltro sarebbe superfluo voler dimostrare che Canetti uno degli autori pi “niciani” del Novecento.


  2. Identit pratico-etica

    Una seconda caratteristica dell’identit la sua dimensione pratico-etica. Ci significa esattamente che essa non coincide con un essere statico n tanto meno con una sostanza immutabile, ma piuttosto si costituisce nel cimento di un fare-operare il cui esito non affatto garantito. L’identit non il proprio Destino ma la propria Storia; ognuno di noi l’insieme degli atti che ha cercato di compiere o di non compiere e degli eventi che ha cercato di cogliere o di ignorare.


    Tuttavia, per amore di verit, va aggiunto che l’identit la sempre mobile e cangiante confluenza di condizionamenti che provengono dal passato dell’individuo e prospettive e progetti che avanzano dal futuro; ci comporta ovviamente che l’identit sia sempre ri-orientamento del proprio asse e della propria sfera d’azione.


  3. Identit contestuale

Una terza caratteristica dell’identit quella di essere un’identit contestuale. Non sono mancati negli ultimi anni gli studi che hanno rivisitato la nozione di “contesto” in stretto rapporto con la struttura della mente e dell’Io. Fra tanti altri ci limiteremo a menzionare il Coulter, autore di “Mente, Coscienza, Societ” edito dal Mulino nel 1991; da segnalare anche il saggio di Harr dal titolo “L’uomo sociale” pubblicato dall’editore Cortina nel 1994.


In questi autori la figura del contesto viene considerata non tanto come il contenitore esterno entro cui si producono determinate vicende, quanto piuttosto come la dimensione costitutiva della stessa caratterizzazione e personalizzazione del soggetto. Insomma il contesto il luogo in cui l’essere umano definisce o scopre le proprie capacit e i propri bisogni.


E’ il luogo in cui queste capacit e questi bisogni assumono insieme il proprio volto sociale e la propria cifra privata.


E’ il luogo in cui incontri e scontri intersoggettivi producono le relazioni e le differenze tra l’Io, il Tu e il Lui.


4 ) IDENTI TA ‘ PECULIARE


Una quarta caratteristica dell’identit forse la pi rilevante, la sua ”peculiarit”; nel senso che l’identit di ogni persona si configura come un qualcosa di assolutamente specifico, di irriducibile a leggi e criteri validi per tutti.


E’ certamente possibile cogliere dimensioni oggettive dell’esistenza che connotano la vita di ognuno: la felicit, la sofferenza, l’entusiasmo, la solitudine ecc.


Sennonch, queste dimensioni non valgono mai come dati o fatti in s, ma solamente attraverso interpretazioni e modalit che generano nuovi sensi. I dati oggettivi insomma appaiono sempre come sottodeterminati rispetto ai vissuti peculiari dell’identit del singolo. Valga un solo esempio, per quanto banale, di quanto stiamo affermando: due persone sono state entrambe diagnosticate come persone depresse esattamente con lo stesso tipo di sintomi, lo stesso numero di sintomi e perfino con la stessa intensit di questi sintomi: eppure tale equivalenza sintomatologica non impedisce affatto che ciascuno delle due persone viva il proprio stato depressivo secondo valenze e modalit radicalmente diverse (diversa sar ad esempio la percezione che hanno di se stessi; diverso il senso che attribuiscono alla loro sofferenza; diversa la funzione che quel malessere viene a svolgere nel contesto complessivo delle loro personalit); lo stesso esempio pu valere per due soggetti egualmente felici; ognuno vive “a modo proprio” quella dimensione di felicita (in ci si e sbagliato Tolstoj quando proprio in apertura del suo “Anna Karenina” ci dice che “tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice e infelice a suo modo”).


I dati oggettivi dunque non determinano in maniera univoca la fisionomia della nostra identit: al contrario, questi dati vengono sempre interpretati e rielaborati in stretta relazione con una pluralit di schemi di riferimento. Perci la trama dell’Io e sicuramente fra le trame pi complesse, poich nel suo reticolo vanno ad intersecarsi molteplici vettori costantemente suscettibili di variazioni di intensit, senso e direzione.


Tutto ci non significa affatto che l’Io manchi di unita e di integrit; e piuttosto vero il contrario: e cio che quanto pi l’Io (l’identit) e ricco e complesso, quanto pi e nutrito da linfe molteplici, quanto pi mosso da motivazioni eterogenee, tanto pi ne guadagna in termini di solidit e di stabilit; ma ad una precisa condizione: che sappia costantemente gestire la propria complessit riorientandola e riconducendola a un qualche nucleo di valore o criterio di senso; nell’eventuale assenza di tale riferimento c’ il rischio che la complessit sconfini nella dispersione, che il reticolo faccia “tilt” che la presunta ricchezza dell’Io appaia a lungo andare come un fuoco fatuo e riveli alla fine una deludente condizione di povert e di disorientamento.


Perci la complessit non pu non apparire come “rischio” ma, direbbe Platone, si tratta di un “Rischio bello”.


5) IDENTITA ‘ RITROVATA


Proust e sicuramente il maestro laico che ha impartito la lezione del “ritrovamento”.


I1 settimo (e conclusivo) volume della sua “Recherche” altro non che un’apoteosi del “Tempo ritrovato”.


Ma perch si tratta di un “tempo ritrovato”? Per la semplice ragione che era andato perduto. Perduto non tanto perch tempo passato o trascorso, quanto piuttosto perch tempo sprecato nelle esperienze illusorie e deludenti della mondanit e dell’amore per le donne.


Non si dimentichi infatti che tutta la parabola esistenziale del narratore (Marcel) si svolge tra i due “Cts” (tra le due parti) che sono il “ct” di Swann e il ” ct ” dei Guermantes. I1 primo ” ct “, attraverso l’esperienza dell’amore di Swann per Odette dar al narratore la consapevolezza delle gioie e delle sofferenze che l’amore provoca nell’innamorato, ma soprattutto la coscienza della illusoriet dell’amore stesso. Swann dir infatti alla fine: “E dire che ho perduto tanti anni della mia vita, che ho voluto morire, che ho avuto il mio pi grande amore, per una donna che in fondo non mi piaceva, che non era il mio tipo!”.


Non meno deludente sar per il narratore l’esperienza dell’altro ” ct “, quello dei Guermantes.


Quando il narratore verr a contatto con il mondo fiabesco dei duchi e principi di Guermantes, si render conto che dietro l’apparente splendore di tale mondo si consumano le passioni pi orrende e i vizi pi ripugnanti (non si dimentichi che dopo il terzo volume dedicato ai Guermantes, la narrazione proustiana si snoda lungo i gironi infernali di Sodoma e Gomorra che fra i pi potenti affreschi del vizio dell’omosessualit). Anche da questo mondo il narratore esce profondamente deluso e soltanto alla fine sperimenter qualcosa di “eterno”, quando metter i suoi piedi sul selciato del cortile del principe di Guermantes e cos facendo recuperer il ricordo dell’acciottolato di Venezia. Improvvisamente, gli si schiude una nuova dimensione dell’esistenza ed egli si sente un altro. Perci l’identit del protagonista – narratore si configura come un’identit inedita, insospettata che non si definisce a partire dal passato, ma piuttosto avanza dal futuro, dopo che il narratore e andato soggetto a ripetute delusioni.


Ribadisce giustamente il Deleuze: “Quello che importa che il protagonista non sapeva all’inizio certe cose, ma le apprende progressivamente e riceve infine un’estrema rivelazione”.


Proust ci offre il paradigma insuperabile di quel che deve essere un’autentica identit; non gi qualcosa che definisce se stessa giorno dopo giorno sulla base delle esperienze gi compiute, ma piuttosto qualcosa che “ritroviamo” in tutta la sua profondit in particolari situazioni della vita che sono soprattutto quelle in cui irrompe in noi una qualche luce, una qualche fulgurazione, un qualcosa che gustiamo come “intemporale” ed “eterno’ e che perci garantisce la piena vittoria contro il tempo.


Ma questa “via di Damasco’ la percorriamo poche volte o forse solo qualche volta nella nostra vita e comunque una via che si trova alla fine di tante altre vie gi percorse ma che ci hanno puntualmente deluso.


La nostra identit che avevamo costruito percorrendo quelle vie finiamo per avvertirla quasi come qualcosa di estraneo, poich ne abbiamo ritrovato un’altra che sentiamo molto pi vera, molto pi autentica, molto pi nostra. I1 settimo volume della Recherche proustiana li a dirci che possibile il ritrovamento di una tale identit.


Giuseppe Tidona

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