I PERMESSI PER MOTIVI PERSONALI O FAMILIARI
Diverse sentenze dei tribunali affermano che i permessi retribuiti previsti dall’art. 15 c.2 del CCNL 2006-09 sono un diritto del personale della scuola non soggetto a potere discrezionale del dirigente scolastico
I permessi per motivi personali o familiari sono regolati attualmente dall’art. 15 c.2 del CCNL 2006-09 che recita testualmente: “il dipendente, inoltre, ha diritto, a domanda, nell´anno scolastico, a tre giorni di permesso retribuito per motivi personali o familiari documentati anche mediante autocertificazione. Per gli stessi motivi e con le stesse modalità, sono fruiti i sei giorni di ferie durante i periodi di attività didattica di cui all´art. 13 comma 9, prescindendo dalle condizioni previste in tale norma”.
Il percorso normativo-contrattuale e giudiziario dei permessi
Introdotti per la prima volta nel 1995, con il primo contratto collettivo nazionale del lavoro, i permessi retribuiti per motivi personali o familiari risentivano allora dell’impostazione tipica del rapporto di lavoro precontrattuale, quando l’amministrazione statale “concedeva” ai suoi dipendenti dei giorni di permesso per “particolari” motivi, richiedendo poi di documentarlo “debitamente”.
Un passo avanti si registrò, comunque, in un primo momento con il CCNL 1999 e, successivamente, con il CCNL 2003. Infatti, con il secondo contratto nazionale non si richiedeva più, per la loro concessione, che i motivi fossero “particolari” né che venissero “debitamente” documentati; con quello del 2003, venne sostituita perfino la dizione “concessi” con quella di “attribuiti” per sottolineare che essi rientravano in una “specie” di diritto del lavoratore. Il diritto ai permessi emerse in maniera chiara, però, soltanto con la stipula dell’ultimo CCNL, quello del 2007, quando comparve tale espressione nel testo del contratto stesso.
Tale orientamento veniva ribadito anche dall’ARAN che, con due Noteemesse entrambe nel febbraio 2011, affermava perentoriamente che: "La fruizione dei permessi in parola è un diritto del dipendente e come tale non può giammai essere subordinato al potere discrezionale della P.A. Tale principio è relazionato alla gestione di un rapporto di lavoro che non risulta più subordinato ad un potere potestativo della P.A., ma essendo ormai regolato da contratto individuale di lavoro di natura privatistica, il lavoratore e la P.A. soggiacciono, ormai sullo stesso piano, in maniera paritaria (T.U. D.lgs 165/01)." (Nota n.2698 del 2 febbraio 2011; Nota n.3989 del 16 febbraio 2011). Dall’enunciazione dell’Agenzia si evinceva con chiarezza che i permessi per motivi familiari o personali erano un diritto del dipendente non soggiacente al potere discrezionale dell’amministrazione.
Nonostante questo lungo cammino normativo-contrattuale, che ha contribuito a chiarire la natura e le caratteristiche di tali permessi retribuiti, la questione è stata oggetto di diverse controversie giudiziarie che hanno visto come protagonisti, da una parte, l’amministrazione statale soccombente, rappresentata da alcuni dirigenti scolastici, e dall’altra, dai lavoratori della scuola che per tutelare il loro diritto sono stati costretti a rivolgersi ai giudici del lavoro.
Le ultime sentenze (Tribunali di Monza, Campobasso, Lagonegro e Potenza) tuttavia, hanno messo in luce che i permessi per motivi personali o familiari sono un diritto che esclude il potere discrezionale del dirigente scolastico il quale, pur preposto al corretto ed efficace funzionamento dell’istituzione scolastica, non può anteporre la gestione organizzativa della stessa come motivo ostativo per limitare le esigenze personali o familiari del dipendente.
La natura e le caratteristiche dei permessi
Tale diritto è qualificabile come un vero e proprio diritto soggettivo potestativo, ossia come una situazione giuridica di vantaggio propria di un soggetto dotato di un potere atto a tutelare un suo interesse da non confondersi con l’”interesse legittimo”, il quale sorge quando un soggetto e la pubblica amministrazione sono su due piani diversi. Nel primo caso, infatti, è il soggetto stesso che può ottenere i vantaggi di un bene in modo diretto e immediato (esempio: retribuzione per l’attività lavorativa svolta), mentre nel secondo caso il soggetto, non vantando di un vero diritto, può soltanto pretendere che l’amministrazione, nell’esercizio della sua attività, agisca in modo legittimo (esempio: corretta compilazione di una graduatoria di un concorso pubblico).
Inoltre, la discrezionalità amministrativa è un potere dell’amministrazione pubblica che interviene per colmare le lacune normative; è un’attività che è soggetta ad alcune limitazioni previste espressamente dalla legge (correttezza, buona fede e ragionevolezza). Qualora si è di fronte ad una norma di legge o contrattuale viene meno l’esercizio della discrezionalità. Per questa ragione nessuna discrezionalità è lasciata al Dirigente scolastico in merito all’opportunità di autorizzare la richiesta di permesso, né gli è consentito di comparare le esigenze scolastiche con le ragioni personali o familiari (Sentenza del tribunale di Monza n.288/2011)
Quanto alla rilevanza oggettiva dei motivi personali o familiari addotti dal dipendente, vale la pena di sottolineare che allo stato attuale non risulta superato l´orientamento giurisprudenziale, consolidatosi a partire da una lontana sentenza della Corte dei Conti risalente al periodo precontrattuale, secondo il quale le esigenze personali o familiari "possono identificarsi con tutte quelle situazioni configurabili come meritevoli di apprezzamento e di tutela secondo il comune consenso, in quanto attengono al benessere, allo sviluppo ed al progresso dell´impiegato inteso come membro di una famiglia o anche come persona singola. Pertanto, non deve necessariamente trattarsi di motivi o eventi gravi (con la connessa attribuzione all´ente di un potere di valutazione della sussistenza o meno del requisito della gravità), ma piuttosto di situazioni o di interessi ritenuti dal dipendente di particolare rilievo che possono essere soddisfatti solo con la sua assenza dal lavoro" (Sentenza Corte dei Conti n.1415 del 3 febbraio 1984).
Claudio Guidobaldi
Lascia un commento