Fede cristiana e postmoderno

FEDE CRISTIANA E POSTMODERNO


“Parlando di Dio sai evitare di cadere nella idolatria dei concetti?” (Divo Barsotti)


CENNI INTRODUTTIVI


La temperie culturale dell’epoca odierna connotata dal cosiddetto “postmoderno”. Ci non significa ovviamente che il postmoderno sia l’unico orientamento culturale del nostro tempo, ma ne costituisce certamente una delle cifre dominanti.


La fede cristiana chiamata a confrontarsi e a misurarsi con esso se deve (e lo deve) essere una fede incarnata nello spessore dialettico del proprio tempo.


Tale confrontarsi e misurarsi deve avvenire in uno spirito di serena profezia.


Profezia perch, alla luce della Parola di Dio, la fede cristiana valuter e giudicher la cultura postmoderna cogliendone limiti e disvalori e denunciandone falsi presupposti.


Serena perch, in tale lavoro di denuncia profetica, la fede cristiana sar disponibile a lasciarsi interpretare dal postmodeno, a raccoglierne insomma la sfida e perci ad avvertire la esigenza di abbandonare quella che potrebbe essere una modalit ormai inadeguata della propria presenza nel mondo, per assumere un punto di vista pi idoneo e pi rispondente alla provocazione rivoltale dal mutato contesto epocale.


Pertanto il nostro breve percorso si articoler nelle seguenti tappe:



  1. vicissitudini del fondamento nell’epoca antica e nell’epoca moderna
  2. caduta del fondamento e cultura postmoderna
  3. ritirarsi del fondamento e crisi irreversibile dell’onto-teologia della tradizione occidentale.


  1. GRUND (“FONDAMENTO”)

    L’epoca classico-antica sicuramente connotata dalla fiducia filosofica e religiosa nella esistenza di un “GRUND” (“FONDAMENTO”) solido e stabile, il quale non solo regge e sostiene l’intero edificio della realt, ma rende anche possibile una conoscenza epistemica, cio un sapere saldo ed inattaccabile appunto perch poggiante sopra (epi) un fondamento che nulla e nessuno possono scuotere. Vien detto infatti “fundamentum inconcussum”. O che si tratti dell’acqua di Talete, o dello “aperion” di Anassimandro, o dell’Idea platonica del sommo bene, o del dio della metafisica aristotelica, o dell’Uno di Plotino, il risultato identico: la realt nella sua interezza poggia su un fondamento che non solo ne garantisce la salda compagine, ma istituisce pure il regime di un logos fortemente veritativo; un logos cio carico di tutto il valore di verit che gli deriva proprio dal rapporto stretto con il fondamento.


    Se parabola c’, se sviluppo c’ nella concezione greca del fondamento, esso va nella direzione di una progressiva spiritualizzazione del GRUND; da elemento fisico quale ancora nei milesi, a principio metafisico in Platone e in Aristotele, fino a divenire sconfinato ed inesauribile oceano di luce in Plotino: “Esiste, s, qualcosa che potrebbe dirsi un centro: intorno a questo un cerchio che irradia splendore emanante da quel centro; intorno a questi, un secondo cerchio: luce da luce!” (Enneadi, IV, 3, 17).


    Tale orgia di luce costituisce sicuramente la pi alta vetta metafisica che il fondamento attinge nella sapienza antico – pagana (si ricordi che Plotino, in epoca cristiana, non fu cristiano); e per onest occorre dire che la metafisica tomista della luce poco o nulla aggiunger a tale prodigioso risultato; del resto abbastanza noto che il GRUND di Tommaso altro non che una compiuta sintesi del dio di Aristotele e della luce di Plotino; non a caso esattamente con tali connotazioni giunger fino a Dante per il quale il GRUND si identifica con “la gloria di colui che tutto move (Aristotele), per l’universo penetra e risplende (Plotino e Tommaso)”.


    Lungo l’intero arco dell’epoca antica e medioevale, il GRUND mantiene sempre una conotazione trascendente, una sua realt “oggettiva”, al di sopra e al di l del soggetto umano. In epoca moderna, tale caratteristica del GRUND viene rovesciata.


    Gi a partire da Cartesio, GRUND diventa il soggetto, se non su un piano ontologico (poich Cartesio mantiene l’esistenza di Dio come “altro” rispetto al soggetto umano), sicuramente sul piano metodologico ed epistemologico. L’inarrestabile sviluppo del principio d’immanenza (vale a dire il crescente guadagno di rilevanza del soggetto in parallelo con la progressiva perdita di quota dell’oggetto), attinger il suo culmine nel delirio idealistico della riduzione al soggetto dell’intera realt con la conseguente negazione di ogni trascendenza.


    Con Hegel, il GRUND si identificher con il GEIST (SPIRITO), il cui sviluppo dialettico cunduce nientemeno che alla “offenbarung der tiefe” (“rivelazione del profondo”); il GEIST costiuisce il dispiegarsi della realt nella sua interezza s che assolutamente nulla rimane dietro tale rivelazione – dispiegamento; di ogni arcano e di ogni mistero si d semplicemente “toglimento” nel senso che nessun residuo rimane.


    Dunque con Hegel il GRUND troneggia ancora, sia pure radicalemte immanentizzato (gi la sinistra hegeliana rinfacciava a Hegel il fatto che la sua filosofia altro non fosse che teologia mascherata); un GRUND che, in Hegel, celebra il pieno trionfo nella pi completa trasparenza di se stesso a se stesso (per capire appieno quest’ultimo inciso, si pensi semplicemente al fatto che tutta la dialettica hegeliana costantemente animata dalla tensione tra “l’in – s” e il “per s”).


  2. UNGRUND (“SFONDAMENTO” O “ASSENZA DI FONDAMENTO”)

“Un granello di saggezza potrebbe trovarsi disperso di stella in stella; ma questa consolante certezza mi diedero tutte le cose: esse preferiscono danzare sui piedi del caso” (“Cos parl Zarathustra” in “La visione e l’enigma”).


Con l’annuncio niciano della realt colta come caso e come caos (non si dimentichi che Ferruccio Masini ha potuto interpretare Nietzsche come “Lo scriba del caos” (Feltrinelli, 1978), congiuntamente con l’annuncio sempre niciano della morte di Dio, ogni GRUND, cio ogni fondamento (plotiniano o hegeliano che sia), viene semplicemente “sfondato”; con Nietzsche non si d pi GRUND, ma si d UNGRUND (assenza di fondamento”.


Perci Nietzsche poteva dire che con l’eliminazione di ogni fondamento, una gelida notte polare scesa su tutta la terra.


Assieme al fondamento, va a picco ogni valore di verit; il logos viene svuotato di ogni sua funzione veritativa e gli rimane solamente il compito di “dire il caos” (compito peraltro quasi impossibile, poicg il caos, per definizione, non pu esser detto).


Dall’UNGRUND come assenza di fondamento nasce il postmoderno. Ce lo garantisce Gianni Vattimo nel suo saggio del 1985 dal titolo “La fine della modenit”: “poich la nozione di verit non sussiste pi, e il fondamento non funziona pi, dato che non vi alcun fondamento per credere al fondamento, e cio al fatto che il pensiero debba fondare, dalla modernit non si uscir mediante un superamento critico, che sarebbe un passo ancora tutto interno alla modernit stessa…… questo il momento che si pu chiamare la nascita della postmodenit in filosofia”.


E nel 1979 Lyotard aveva pubblicato il suo saggio dal titolo “La condizione postomoderna” in cui affermava testualmente: “possiamo considerare postmoderna l’incredulit nei confronti delle metanarrazioni”. E pi avanti Lyotard spiega che le “metanarrazioni” altro non sono state che le grandi narrazioni che hanno caratterizzato lo sviluppo della modernit. Tra le pi rilevanti Lyotard menziona le seguenti: 1) emancipazione progressiva della ragione e della libert; 2) arricchimento dell’umanit nel suo complesso ad opera dei progressi della tecnoscienza capitalistica; 3) salvezza delle creature attraverso una conversione delle anime al racconto cristico dell’amore martire.


La filosofia di Hegel, conclude Lyotard, “totalizza tutti questi racconti, e in questo senso concentra in se stessa la modenit speculativa”. Sennonch, la scrittura niciana del caos ha fatto saltare in aria (l’immagine non nostra; Nietzsche stesso si era definito “dinamite”) tutte queste metanarrazioni che avevano caratterizzato la modernit e ha peci inaugurato la postmodenit. La quale, dovendo fare a meno di un fondamento ormai assente, ha potuto e dovuto accontentarsi di tutto ci che spezzone, frammento, brandello (lo statuto del caos infatti solo questo pu garantire). La prima conferma dello impervessare del frammento e del brandello la troviamo nell’opera d’arte del nostro tempo: non ha pi senso costruire l’opera d’arte sulla base di materiali coerenti; pi adeguato invece porre gli uni accanto agli altri i brandelli di vita vissuta cos come vengono offerti dalla immediatezza di un’intervista o di una confessione; acquista importanza una tecnica esperta dal “collage” e del “pastiche”, mediante la quale si mettono insieme spezzoni e brani di mondo reale e/o di mondo fittizzio; e tutto questo senza pretendere che l’insieme debba essere coerente e avere un senso; lo spezzone infatti che deve apparire ben limato e perfetto; il senso dell’insieme non proponibile.


Perci il postmoderno portato ad enfatizzare la parte volatile, caduca, mobile ed effimera della realt; la cultura postmodena convinta che siano possibili teorie valide solo localmente; giochi linguistici parziali; formazioni discorsive assolutamente “regionali” (Foucalt). Occorre riconoscere la frammentariet, la caoticit del reale, l’incomunicabilit ontologica delle sue parti, l’impossibilit di un progetto globale.


Frederic Jameson nel suo saggio del 1989 dal titolo: “Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo”, ha sottolineato che “il postmoderno ha cancellato il confine tra la cultura alta e la cosiddetta “cultura di massa” o “cultura commerciale”, buttando tutto quanto esiste, nel frantoio di quel prodigioso meccanismo che oggi si chiama “industria culturale”; tale industria diventa un inesauribile magazzino di immagini. Non il senso, ma le immagini. Perci, il postmoderno pu essere considerato, argomenta Jameson, come “il regno del simulacro”. Del simulacro, non dell’icona!


Una differenza abissale intercorre infatti tra icona e simulacro: la prima immagine visibile che rinvia all’invisibile; il secondo invece vuota parvenza che non rinvia neanche a se stesso.


Con queste brevi note non abbiamo avuto la presunzione di illustrare l’intera gamma degli aspetti culturali del postmoderno (peraltro sarebbe un compito assai arduo, dal momento che il postmoderno un fenomeno culturale onnipervasivo e “tentacolare” per cui, date le sue numerose propaggini e infiltrazioni, diventa difficile isolarlo e circoscriverlo con nettezza).


Era invece nostra intenzione offrire semplicemente la fisionomia essenziale per poi suggerire le vie che la fede cristiana oggi deve percorrere se vuole realizzare un superamento “dialettico” nei confronti della cultura postmoderna. Quali possano essere, a nostro avviso, tali vie, tentiamo di dirlo nella terza (ed ultima) tappa del nostro itinerario concettuale.




  1. ABGRUND ( “RITRARSI DEL FONDAMENTO”)


E’ davvero impossibile che la fede cristiana possa accettare l’annuncio niciano della morte di Dio; accettarlo radicalmente, significherebbe per la fede negare se stessa. Perci l’esito postmoderno dell’Ungrund (cio dell’assenza del fondamento) deve necessariamente essere superato.


E tuttavia la negazione del fondamento getta le basi per un pi autentico recupero, da parte della fede, del fondamento stesso. La negazione, che pure va rifiutata nella sua pretesa radicale, propone se stessa come irrinunciabile correttivo per un nuovo approccio alla realt del Grund.


Lo snodo decisivo nel problema che stiamo affrontando e stato fornito da Heidegger. In “Essere e Tempo” (1927), Heidegger denuncia l’insufficienza dell’apparato concettuale della metafisica occidentale; tale insufficienza consiste nel fatto di concepire l’Essere come “Vorhandenheit” (cio come “semplice-presenza”)


Dunque, sia la concezione classica che quella moderna del Grund appaiono agli occhi di Heidegger come inadeguate poich entrambe colgono il fondamento (o l’essere) come un qualcosa che “sta davanti”, come un ob-iectum, che si offre allo sguardo di un soggetto contemplante. E’ questa concezione dell’essere che, secondo Heidegger, rende impossibile pensare adeguatamente il fenomeno della vita e della storia. Non si dimentichi peraltro che la rottura con Husserl avverr proprio quando Heidegger si render conto che la concezione dell’essere come “Vorhandenheit” sta alla base del lo stesso progetto fenomenologico husserliano (e, cosa ancor pi grave vi sta come presupposto non problematizzato). Del resto, gi nel semestre estivo del 1921, Heidegger aveva tenuto un corso su “Agostino e il Neoplatonismo”; corso il cui tema dominante era costituito dalla messa in luce dell’insufficienza dell’apparato concettuale neoplatonico di cui Agostino si servito per esprimere i contenuti della tematica religiosa cristiana; secondo Heidegger, Agostino non pervenuto ad una autentica e profonda comprensione del problema dell’essere perch rimasto vincolato allo schema metafisico greco che era giunto fino a lui nella forma del neoplatonismo. Non c’ dubbio, prosegue Heidegger, che la concezione del Grund (cio dell’Essere) che viene colto come “Vorhandenheit” (“semplice presenza”) si trasmessa dall’ontologia greco-classica alla teologia scolastico-cristiana. In Tommaso infatti l’Essere dell’ontologia classica verr denominato “Ipsum esse Metaphysicum subsistens” (“L’Essere metafisico sussistente sempre identico a se stesso”). Perci Heidegger pu affermare che tale modo di concepire l’Essere caratterizza tutta la onto-teologia classico-cristiana. La fine di tale maniera di concepire l’Essere (che coincide poi, secondo Heidegger, con la fine della metafisica), si ha con Nietzsche, il quale nega e sopprime l’Essere (Grund) dell’ontologia classico-cristiana (sulla portata di tale negazione niciana si detto “ad abundantiam” nella seconda parte del nostro percorso).


Ma si badi: mentre in Nietzsche il Grund viene semplicemente negato (Un-Grund- Non-fondamento), in Heidegger il Grund si ri-trae, nel senso che viene a perdere il carattere statico-metafisico della “Vorhandenheit” (della semplice presenza) per diventare “Ereignis”) cio evento epocale, accadimento temporale.


Ponendosi come Ereignis – Evento, il Grund diventa Ab-Grund, cio un ri-trarsi del fondamento nel senso e nella direzione di un suo storicizzarsi temporale. Non si comprende una sola parola di “Essere e Tempo” di Heidegger se si perde di vista lo snodo teoretico teste chiarito (per questo motivo, coloro che scorgono in “Essere e Tempo” solamente un’analitica esistenziale, vale a dire solamente un’analisi delle strutture e delle modalit dell’esistente (“Dasein”), si lasciano sfuggire la portata ontologica di quest’opera che davvero pietra miliare del Novecento filosofico). Il mondo dell’Ereignis il mondo della fine della metafisica; quando l’Essere non si lascia pi pensare come semplice-presenza, non pu che apparire come evento. E l’evento non indica affatto una essenza stabile dell’Essere (indica al contrario un ri-trarsi costantemente da una tale essenza stabile); perci l’Essere non mai altro dal suo modo di darsi storico agli uomini di una certa epoca, i quali da questo suo darsi sono determinati nella loro stessa essenza ma a sua volta tale essenza si identifica con il progetto che li costituisce.


Giunti a questo punto, ecco l’altro snodo decisivo del nostro percorso: il darsi dell’Essere come Ereignis-Evento apre lo spazio della secolarizzazione. Ed proprio con la realt della secolarizzazione che si misurano le teologie di Gogarten, di Bonhoeffer, di Cox.


Gogarten nel suo saggio del 1953 dal titolo “La secolarizzazione come problema teologico” sostiene che la secolarizzazione trova la sua matrice originaria nel messaggio cristiano stesso, il quale emancipando gli individui dal cosmo divinizzato dei greci, ha mondanizzato il mondo e ha reso gli individui liberi rispetto alle cose.


Bonhoeffer, da parte sua, aveva gi riconosciuto l’avvenuta secolarizzazione della civilt occidentale moderna, quando nella lettera dell’8.6.1944 contenuta in “Resistenza e Resa” aveva scritto: “Il movimento nella direzione dell’autonomia dell’uomo ha raggiunto nel nostro tempo una certa compiutezza. L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio dell’ipotesi di lavoro che Dio…. esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano, Dio viene sempre pi respinto fuori dalla vita e perde terreno”.


Ma il maggior rappresentante della teologia della secolarizzazione (a giudizio di Fornero) rimane Harvey Cox, studioso americano la cui opera si inscrive nel contesto storico-politico segnato dalla nuova frontiera kennedyana degli anni Sessanta.


L’originalit di Cox rispetto agli altri teologi della secolarizzazione consiste nell’avere egli indagato tale fenomeno non solamente sul piano teologico ma piuttosto in stretta connessione col fenomeno dell’urbanizzazione. Ce lo dice con chiarezza: “La secolarizzazione si verificata solo quando le possibilit di confronto cosmopolita offerte dalla vita delle grandi citt hanno reso evidente la relativit dei miti e delle tradizioni che gli uomini un tempo ritenevano indiscutibili” (“La citt secolare” Trad. Ital., Firenze, 1968, pag.1). E pi avanti aggiunge: “L’universo divenuto ormai un campo di esplorazione e di sforzo umano da cui gli dei sono fuggiti via. Il mondo divenuto compito dell’uomo e responsabilit dell’uomo” (pag.7).


Non nostra intenzione offrire una illustrazione ampia del fenomeno della secolarizzazione; chi volesse conoscerne nessi e connessi rimandato alla lettura dei saggi degli autori citati (e di tanti altri!).


Per l’economia del nostro discorso ci preme invece sottolineare che la radice teoretica di tutte le teologie della secolarizzazione (ovviamente tali teologie prendono anche le mosse da una rinnovata esegesi del testo biblico come pure da un’attenta analisi sociologica) e’ proprio la nozione heideggeriana (sopra esaminata) dell’Essere (Grund) che si fa Evento (“Ereignis”); e proprio in questo suo farsi avvenimento epocale e carne del mondo provoca il crepuscolo del Dio e degli Dei dell’Onto-teologia occidentale; a questo punto spingiamoci ancora oltre e chiediamoci: se la radice teoretica della secolarizzazione costituita dall’Essere che si fa evento e carne del mondo, quale sar allora il cuore teologico della secolarizzazione stessa?


Il capitolo secondo della “Lettera ai Filippesi” la risposta alla nostra domanda: il manifestarsi di Dio nella Knosis del Figlio. Nessuno di noi ha mai conosciuto il Padre (“Dio nessuno mai l’ha visto” Gv.1,18); noi abbiamo contemplato solamente la gloria del Figlio (“kai eJ easameJ a th n doxan autou”) “Abbiamo contemplato la sua gloria”(Gv. 1,14). Questa gloria del Figlio si irradiata sul mondo nella notte di croce; ma il Figlio precipitato nella tenebra profonda di tale notte dal momento in cui “apparso in forma umana, ha annientato se stesso”. Knosis del Figlio dunque questo annientare totalmente se stesso dopo aver assunto la carne del mondo e perci essersi fatto Evento (Ereignis). Davvero spaventoso questo abisso (Abgrund) nel quale il Figlio precipita; davvero terribile questa sua estrema lontananza dal Padre; ma ecco la conseguenza inchiodante per la teologia e per la fede cristiana: se Dio si rivelato nell’estrema debolezza dell’annientamento del Figlio, non sar pi possibile per la teologia concepire Dio (cio il Grund) come ente dotato dei caratteri della fissit, della immobilit, della impassibilit, dell’onnipotenza; insomma, il Dio-Grund della onto-teologia occidentale entra definitivamente in crisi; infatti nella Knosis del Figlio non si manifesta la forza di Dio ma, al contrario, l’estrema debolezza; l’evento della Knosis liquida tutti gli dei e signori del mondo e perci restituisce il mondo a se stesso in tutta la sua “autonomia profana” (su questo tema del mondo che viene costituito nella sua piena autonomia mondana proprio a partire dall’Incarnazione – Knosis del Figlio, le pagine pi lucide le ha scritte sicuramente Metz nel suo saggio “Sulla Teologia del Mondo” edito dalla Queriniana).


A questo punto del nostro percorso, ecco la domanda: la cultura odierna che abbiamo qualificato come “Post-Moderna” si limita semplicemente, sulle orme della negazione niciana, a confermare l”Un-Grund” cio l’assenza di fondamento, oppure tenta, in qualche modo, un certo recupero dei contenuti della fede cristiana?


Non c’ dubbio che nella direzione di un tale recupero vadano alcuni percorsi dell’esperienza religiosa post-moderna che appaiono come ossessionati dalla Kenosis del Figlio.


Prenderemo in considerazione soprattutto tre di tali percorsi e ne illustreremo le tesi di fondo. Ci riferiamo esattamente ai due saggi di Sergio Quinzio: 1) “La fede sepolta”(del 1978); 2) “La croce e il nulla” (del 1994) (entrambi pubblicati dall’editore Adelphi); poi al saggio di Vincenzo Vitiello “Cristianesimo senza redenzione” del 1995 pubblicato da Laterza; e infine al saggio di Gianni Vattimo “Credere di credere” del 1996 pubblicato da Garzanti.


Al di la delle innegabili e notevoli differenze che intercorrono tra questi tre Autori, e possibile tuttavia cogliere un evidente presupposto comune: in tutti e tre assume un’importanza decisiva e perfino un valore esclusivo l’incarnazione-Kenosis del Figlio.


La dimensione globale del messaggio cristiano subisce in questi Autori una drastica operazione riduttiva, poich, lo ripetiamo, tutta la loro attenzione puntata sulla vicenda del Figlio; si potrebbe dire che la loro tesi “ad alta concentrazione cristologica” e tale aspetto che apparentemente sembrerebbe costituire un punto di forza, si rivela in realt come un grosso limite che rende questi autori non immuni da unilateralit e fraintendimenti. Ma procediamo con ordine analizzandone le singole tesi (scegliamo di seguire l’ordine cronologico di tali saggi).


Proprio a partire da quell’abisso che la Knosis del Figlio, Sergio Quinzio sottolinea il carattere tragico della presenza del dolore e del male e ammette perfino la possibilit di un fallimento del disegno divino, anche se mantiene aperta la speranza della redenzione. Quinzio vive e percepisce la fede come connotata da un rischio supremo, dal momento che, “affidarsi a una promessa di salvezza significa sospendere la propria vita su un abisso” (“La fede sepolta”, p.97). Credere significa assumere il rischio che Dio non salvi, ma non per questo la fede perde di senso; anzi, ci garantisce l’autore, “La piet la speranza della salvezza sono piene di senso, anche se fossero destinate al pi radicale scacco” (ibid.p.99). Credere pu significare soltanto vivere nell’angoscia dell’orto degli ulivi.


Queste premesse che Quinzio chiarisce gi nel saggio del 1978, le sviluppa poi nel saggio del 1984, dove distingue tra due tipi di teologia: la prima, fondandosi sulla sicurezza di una conciliazione finale, permette all’uomo di “attraversare il ponte senza la paura di precipitare” (“La croce e il nulla” p.33); la seconda non offre invece alcuna garanzia certa, alcuna protezione da rischi anche mortali. Il secondo tipo di teologia non si ispira a nessun modello di evoluzione ascendente e progressiva, ma si colloca piuttosto nella prospettiva del disastro finale annunciato dall’Apocalisse. Knosis del Figlio e disastro finale dell’Apocalisse, secondo Sergio Quinzio, fanno s che la fede non possa mai tradursi in alcun atteggiamento trionfalistico e neppure in un facile ottimismo riguardo alla salvezza finale.


Come valutare la posizione di Quinzio? Ne riconosciamo senza esitazioni l’innegabile seriet ma ne cogliamo pure, con onesta intellettuale, l’unilateralit e la tendenza ad estremizzare.


Anzitutto: come pu Quinzio mettere in dubbio l’accadere della salvezza finale? Come pu Quinzio dire che il credente non deve avere la certezza (si tratta, vero, di una certezza che costantemente riporta la sua vittoria sul dubbio), della promessa indefettibile di Dio (indefettibile significa esattamente “che non pu venir meno”, che “non pu mancare”), occorre dire, per onest intellettuale, che su questo punto aveva le idee molto pi chiare quel cristiano davvero “adulto” che fu Dietrich Bonhoeffer il quale, in “Sequela” ci dice che “Dio non fedele alle nostre esigenze, ma fedele alle sue promesse”; dicendo questo, Bonhoeffer mantiene l’atteggiamento del credente nella condizione del pi autentico equilibrio poich se Dio non fedele alle nostre esigenze, allora ne deriva che la fede del credente non potr mai essere un facile ottimismo consolatorio e ancor meno una polizza di assicurazione contro i numerosi rischi dell’esistenza; ma poich anche vero che Dio fedele alle sue promesse , allora ne deriva che la fede del credente non potr mai soccombere al dubbio poich in tal caso il dubbio verrebbe a configurarsi come una vera e propria tentazione di incredulit la quale, se non viene vinta come tentazione, comporta il venir meno della fede stessa. Ci pare perci che su questo nucleo (l’indefettibilit della promessa) il testo di Bonhoeffer possa vantare una lucidit rispetto al testo di Quinzio che conserva invece una certa opacit.


E che senso ha poi, in Quinzio, insistere eccessivamente sull’angoscia del credente? Ma non forse vero che siamo chiamati alla pienezza della gioia? Non forse vero che non si contano i testi dell’Antico e del Nuovo Testamento che incessantemente invitano il credente alla gioia e all’esultanza? Non forse vero che questa gioia in noi non pu mancare, poich se mancasse, significherebbe che non ci sentiamo oggetto della tenerezza del Padre? Che ne nel testo di Quinzio di questo mistero di gioia?


E da ultimo facciamo notare: come mai l’attenzione di Quinzio puntata solamente sul disastro finale dell’Apocalisse, ma il nostro autore non si accorge che tale disastro coincide in realt con la caduta di Babilonia (Ap.18,1-24) ed un disastro semplicemente preparatorio allo scendere dal cielo della Gerusalemme celeste (Ap.21,1-8)? E come e possibile che Quinzio si lasci sfuggire quel meraviglioso versetto 4: “E terger ogni lacrima dai loro occhi”? e non ha letto il versetto 5 di questo capitolo l dove si dice che “queste parole sono certe e veraci”?


Attestiamo tutta la nostra stima nei confronti di un uomo serio e indagante quale fu Sergio Quinzio ma non possiamo impedirci di ritenere che il suo percorso religioso postmoderno unilaterale e perci non rende giustizia alla globalit dei significati del testo biblico.


Non meno “serio” della concezione di Quinzio l’approccio alla realt del cristianesimo di Vincenzo Vitiello.


Nel suo saggio dal titolo “Cristianesimo senza redenzione” (1995), Vitiello offre un’interpretazione del messaggio evangelico che non conduce affatto ad un risultato rassicurante e consolatorio. Il nostro autore anzitutto ci ricorda che “l’avvento di Cristo ha spezzato la storia in due: prima e dopo Cristo! “; e subito dopo lamenta il fatto che la coscienza storica non riuscita a far suo il messaggio di Cristo; si tratta infatti di un evento talmente straordinario e inaudito da non essere stato per nulla compreso, fino al punto da attraversare l’intero sviluppo storico della civilt cristiana “come un corpo sostanzialmente estraneo “. Infatti il destino di questo messaggio stato quello di “essere interpretato dai suoi stessi seguaci e sostenitori in base a categorie e modelli di pensiero del tutto impropri ed incongrui ” (e Vitiello, che davvero un teoreta di valore, non tralascia di valore, non tralascia di analizzare in profondit tali modelli di pensiero). Ma il nucleo decisivo della sua tesi Vitiello lo attinge quando affronta il tema del rapporto tra finito e infinito; Vitiello convinto che non potr mai darsi alcuna conciliazione tra l’Essere infinito di Dio e la finitezza della creatura; insomma, il rapporto tra finito e infinito non consente alcun superamento di tipo hegeliano; il male del mondo non in alcun modo redimibile: “nessuna redenzione, n in cielo, n in terra, n cristiana, n pagana, possibile” (pag. 89) . La morte in croce del Cristo e il suo grido di abbandono esprimono, secondo Vitiello, il contenuto essenziale del messaggio cristiano che appunto da cogliere nell’estremo deserto del mondo dal quale il Padre si ritratto; il grido di abbandono del Figlio visualizza “l’infinito assentarsi dell’infinito” da cui conseguentemente deriva l’assoluta irredimibilit di ogni realt finita .


A partire da tale ottica della knosis e morte del Figlio, Vitiello non esita ad affermare che “l’interpretazione della passione e morte del Figlio come sacrificio espiatorio sia la pi grave mistificazione compiuta dal cristianesimo storico; una lettura regressiva che tradisce il messaggio cristiano ” (pag.134) .


I toni e gli accenti di Vitiello sono ancor pi cupi e pessimistici di quanto non siano in Quinzio .


Vitiello davvero ossessionato dalla knosis e dal grido di abbandono del Figlio fino al punto da non ritenere possibile alcun esito di salvezza e di redenzione; pertanto la sua concezione non solo unilaterale ma ignora del tutto la portata cosmico-salvifica dell’iniziativa del Padre, il quale, nello stesso momento in cui prende l’iniziativa di resuscitare il Figlio, ne fa “il Primogenito di molti fratelli”, e perci proprio nel mistero della Resurrezione del Figlio che si compie quella redenzione di ogni realt finita che appare impossibile a Vitiello .


Non si capisce insomma perch mai questi nostri autori si fermino solo al mistero del Venerd Santo e dimenticano quasi che c’ anche il Sabato Santo e la Domenica di Pasqua .


E veniamo ora a un terzo percorso dell’esperienza religiosa post-moderna: quello compiuto da Gianni Vattimo .


Nel suo saggio del 1996 dal titolo ” Credere di credere ” (edito da Garzanti), Vattimo muove dal presupposto che ci sia una sostanziale convergenza tra la fine della metafisica e la dottrina cristiana dell’incarnazione o della knosis di Dio (come si pu vedere, non senza ragione che noi abbiamo affermato che questi autori di casa nostra sono letteralmente ossessionati dalla knosis del Figlio) . Solo che, in Vattimo, il recupero della dottrina cristiana dell’incarnazione avviene in stretta connessione con l’interpretazione del pensiero di Heidegger. Nel riferirsi ad Heidegger, Vattimo pone in evidenza il fatto che “nella storia della metafisica occidentale, il destino dell’Essere (Grund) venuto a coincidere con il ridursi, sottrarsi, indebolirsi dell’Essere stesso; e tale “indebolimento” non stato solamente il risultato dell’accresciuta consapevolezza dei limiti del pensiero, ma anzitutto il carattere costitutivo dell’Essere stesso; entra definitivamente in crisi quello che noi abbiamo prima chiamato, a proposito di Heidegger, l’essere come “Vorhendenheit” per cui, l’essere non pu pi essere considerato come rispecchiamento di strutture oggettive, ma solo come “rischiosa interpretazione di eredit, appelli, provenienze” (pag.39) .


Ora l’ipotesi di Vattimo che tale esperienza dell’indebolimento dell’essere, altro non sia che “la trascrizione della dottrina cristiana della knosis del Figlio” (pag.27) .


Sulla base di questo presupposto, Vattimo pu recuperare tutto il valore positivo del processo di secolarizzazione; a parere del nostro autore infatti “la secolarizzazione altro non che il modo in cui la knosis, iniziata con l’incarnazione di Cristo, continua a realizzarsi in termini sempre pi netti, proseguendo l’educazione dell’uomo al superamento dell’originaria essenza violenta del sacro” (pag.42). Che il sacro sia profondamente imparentato con la violenza lo afferma Ren Girard nel suo saggio del 1980 dal titolo “La violenza e il sacro” (edito da Adelphi). Girard sostiene che, quando in una societ si scatena una forte conflittualit tra i suoi membri, la concordia viene ristabilita solo trovando un capro espiatorio contro cui orientare la violenza. Il capro espiatorio viene investito di attributi sacri e diventa oggetto di culto, pur rimanendo fondamentalmente vittima sacrificale. Ora secondo Girard, questi caratteri del sacro si conservano anche nella bibbia: la teologia cristiana ha perpetuato il meccanismo vittimario concependo Ges Cristo come la “vittima perfetta” che con il suo sacrificio di valore infinito, soddisfa pienamente il bisogno di giustizia di Dio per il peccato di Adamo. Girard sostiene, e Vattimo gli d ragione, che questa lettura vittimaria della scrittura sbagliata (per Vitiello, come abbiamo gi visto, una lettura scandalosamente mistificante e regressiva) . Ges, conclude Girard, non si incarna per fornire al Padre una vittima adeguata alla sua ira; piuttosto viene al mondo proprio per liquidare, con la testimonianza dell’amore, il nesso tra violenza e sacro.


Facendo propria quest’analisi girardiana del nesso tra il sacro e la violenza, Vattimo ne conclude che “l’incarnazione, e cio l’abbassamento di Dio al livello dell’uomo, ci che il nuovo testamento chiama la knosis di Dio, andr interpretata come una conferma che il Dio non violento e non assoluto dell’epoca post-metafisica ha come suo tratto distintivo quella stessa vocazione all’indebolimento di cui parla la filosofia di Heidegger” (pag.31).


Sulla base di questa sua interpretazione della knosis e del processo di secolarizzazione, Vattimo, con inopportuna audacia, d spaccio a tutto quel versante della “teologia dialettica” che, inaugurato dalla “Epistola ai Romani” di Barth, giunge fino a Gogarten. Vattimo convinto che “per la teologia dialettica non c’ continuit tra la realt divina e quella umana, ma solamente un salto qualitativo infinito che pu essere colmato solo dalla grazia di Dio, la quale certo salva l’uomo, ma solo dopo averlo in qualche modo annullato” (pag.42). Personalmente riteniamo che tale giudizio di Vattimo sulla teologia dialettica sia assolutamente inadeguato poich tale teologia non intende affatto annullare l’uomo e le sue potenzialit, ma le interessa piuttosto ribadire l’alterit di Dio contro ogni tentativo di “riduzione antropologica” promosso dalla teologia liberale (peraltro, se non collochiamo la teologia dialettica nel contesto della sua polemica contro la teologia liberale, rischiamo di equivocarne il senso).


Ad ogni modo, ci interessa in questa sede sottolineare il fatto che, anche in Vattimo, si ha una radicalizzazione dell’Evento-Cristo (l’enfasi posta sulla knosis) fino alla quasi negazione di ogni trascendenza del Grund. Insomma la posizione di Vattimo, pur non identificandosi con quella niciana dell’Un-Grund (cio dell’assenza del fondamento), si identifica sicuramente con quella heiggeriana dell’Abgrund (cio del ritrarsi del fondamento); che per in Vattimo pi che un semplice ritrarsi poich in effetti un “indebolimento” del fondamento stesso.


Ma, a ben guardare, non solo in Vattimo che la trascendenza del Grund diventa uno spazio vuoto; in fondo, anche nei percorsi di Quinzio e di Vitiello, il Grund va a picco poich esso finisce per risolversi e dissolversi completamente nell’evento dell’incarnazione-knosis del Figlio .


A questo punto rimane da vedere quale atteggiamento critico-dialettico la fede cristiana potr assumere nei confronti di tali percorsi della religiosit post-moderna .


Riteniamo di poter enunciare i seguenti punti fermi :



  1. La fede cristiana non potr mai accettare la negazione niciana del Grund, a causa del suo esito radicalmente nichilistico; perci la pista dell’Un-Grund, cio della negazione del fondamento non assolutamente percorribile (l’avevamo gi detto).
  2. Ma non neppure percorribile la pista del Grund, almeno nella forma in cui esso stato concepito da quella che Heidigger chiama “L’onto-teo-logia dell’occidente . Nell’intero sviluppo di tale Ont-teo-logia il fondamento (Dio) stato ridotto a cosa o a ente; concepito come “Ens realissimum” e come “Causa sui”, stato di fatto svuotato (bisogna purtroppo riconoscerlo) di tutta la santit e di tutto il mistero del suo “Essere altro”, per farne un ente disponibile al gioco strumentale dei nostri calcoli umani. Davanti a questo Dio dell’onto-teo-logia non possibile alcuna autentica esperienza di ascolto poich le orecchie sono troppo disturbate dal vano frastuono della chiacchiera teologica e filosofica; il Grund dell’onto-teo-logia scade a idolo, diventa davvero un “Deus mortuus et otiosus” e rischia sempre di essere assunto come un assoluto terrestre ” (Pietro Prini, in “Storia dell’esistenzialismo”, edito da “Studium” ).
  3. Dimostrata l’impraticabilit delle prime due piste, rimane da percorrere la terza pista, quella dello Abgrund, del “ritrarsi del fondamento”.

Ma non come la percorrono Quinzio, Vattimo, Vitiello. Costoro infatti, dalle rovine del Grund, riescono a malapena a salvare e a recuperare l’incarnazione-knosis del Figlio; ma un recupero che non avviene senza limiti e senza grosse lacune; in Quinzio infatti la knosis del Figlio rischia di essere vanificata da una radicale “sconfitta di Dio” ( il titolo del suo ultimo saggio); in Vitiello la knosis del Figlio non ha neppure la forza di garantire la redimibilit della realt finita; in Vattimo infine la knosis del Figlio da un lato rischia di dissolversi e diluirsi nel processo mondano della secolarizzazione, dall’altra rischia di dissolversi in un processo ermeneutico dalla circolarit infinita. Da questo rischio del labirinto ermeneutico ha messo in guardia Salvatore Natoli nel capitolo 7 del suo “I nuovi pagani” intitolato “Fede ed ermeneutica”: “La mentalit ermeneutica, creando un ambito costante di rinvii elude il punto fermo. Nel senso che il punto fermo non pi un’origine, ma una decisione, vuoi della Comunit, vuoi degli individui. In tale modalit si dissolve la fede ….sostanzialmente non c’ pi un’origine che non sia la decisione dell’interpretazione” (Natoli, op . cit . p.137) .


Ci pare che l’avvertimento di Natoli sia davvero prezioso e pertinente: il lavoro dell’interpretazione, per quanto necessario, doveroso e interminabile, non potr mai assorbire ed esaurire in s l’ “origine”; essa, l’ “Origo”, sar sempre “altra” rispetto alla decisione dell’interpretazione (su questo tema mostra di avere le idee chiare Luigi Pareyson, il quale, nel suo saggio “Verit e interpretazione” edito da Mursia, sottolinea giustamente che si pu evitare di smarrirsi nel “labirinto dell’interpretazione” solamente se ci si muove nel contesto di una “ontologia dell’inesauribile”; un’ontologia caratterizzata dalla differenza tra Verit- Origine e atto dell’interpretare).


Ma torniamo al nostro problema. Si tratta ormai di compiere gli ultimi passi in una precisa direzione: riuscire a concepire il ritrarsi del fondamento in una modalit radicalmente diversa da come lo concepiscono i percorsi degli autori analizzati. A tal proposito partiamo dalla semplice considerazione della struttura della fede.


La fede nasce dall’ascolto (Rm.10,17); ma l’ascolto essenzialmente ascolto del Figlio: “Questi il Figlio mio prediletto: ascoltatelo!” (Mc.1,11).


L’ascolto si realizza concretamente come obbedienza della fede; il termine greco del Nuovo Testamento esattamente ” upakoh ” (“obbedienza”).


Ma quel che decisiva proprio la preposizione “upo” (Ipo) che, letteralmente tradotta, vuol dire “sotto”, ma anche “oltre”. Dunque l’ascolto veramente tale se ascolto di ci che sta “sotto” e “oltre” rispetto alla parola immediatamente udita. E poich oltre la Parola ci sta il silenzio, possibile affermare che l’autentico ascolto della Parola del Figlio l’ascolto del Silenzio che supera la parola e da cui la parola stessa scaturisce. Ci che sembra a prima vista come “realt prima” nell’ascolto credente, si manifesta come “realt seconda”: il Figlio rinvia al Padre, la Parola rimanda al Silenzio, il Rivelato rimanda al Dio nascosto (“Deus Absconditus”). Sottolinea giustamente Massimo Cacciari nel suo saggio dal titolo “Dell’Inizio” (edito da Adelphi), che il termine “Re-velatio” non va inteso solo come manifestazione, ma al contrario come un “tornare a velarsi”, come un infittirsi del velo; nell’ostendersi, un vero e proprio ritrarsi. Dunque il silenzio l’altra sponda, la profondit nascosta di ci che si rivela, il sentiero che conduce alle insondabili profondit di Dio. Il Silenzio il Padre da cui scaturisce eternamente la Parola che il Figlio. A questo punto ci colleghiamo subito col nostro tema che, non lo si dimentichi, coincide col ritrarsi del fondamento; poich il Padre essenzialmente Silenzio, Egli non verr mai a coincidere con “l’Ente Realissimo” dell’onto-teologia occidentale; nessuna speculazione filosofica o teologica potr mai afferrare le coordinate dello spazio abitato dal Padre per la semplice ragione che da un tale spazio il Padre costantemente si ritrae; e se ne ritrae perch il Padre costitutivamente Silenzio-Abisso ( Abgrund ) cos come il Figlio costitutivamente Parola-Carne.


Due sono perci i poli dell’Abgrund, cio del ritrarsi del fondamento: il Figlio e il Padre. Il Figlio, facendosi evento e carne del mondo distrugge, per mezzo della sua knosis, il Dio-Grund dell’ontoteologia poich giunge fino al completo annientamento di se stesso: a partire dalla knosis del Figlio non c’ pi posto per il Dio-Grund despota e onnipotente; il Padre, facendosi Silenzio, si ritrae da ogni Grund e ne rende vuoto lo spazio. A questo punto riusciamo a comprendere il senso di quel misterioso silenzio al quale accenna il veggente dell’Apocalisse: “Quando l’Agnello apr il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora” (Ap.8,1). E questo silenzio dell’Apocalisse a sua volta l’eco di un altro silenzio, quello nel quale il mistero stato avvolto per secoli (Rm.16,25).


I percorsi della religiosit postmoderna rivolgono la loro attenzione unicamente all’abisso della knosis del Figlio; nulla sanno dell’abisso – silenzio del Padre; e neppure mostrano di sapere che il simbolo trinitario collega strettamente l’Abgrund del Padre a quello del Figlio; la fede autentica sa invece che il grido di abbandono del Figlio, varcando i confini del cosmo e della storia, giunge fino alla “tenebra” (“guoj oV “) del Padre e che fra il grido del Figlio e la tenebra del Padre si spalanca una dimensione abissale. Spazio davvero tremendo per la nostra mediocrit di uomini. Come potremmo abitarlo se non ci soccorresse lo Spirito Santo, il Consolatore?


Prof. Pinuccio Tidona


 

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