Categoria: Scuola e Società

  • Assenze per malattia: chiarimenti dal Ministro Brunetta

    Assenze per malattia: chiarimenti dal Ministro Brunetta


    Tutti i lavoratori sono fannulloni


     


      


       Il ministero della funzione pubblica, con la Circolare n.7 del 17 luglio 2008, ha fornito chiarimenti – anche nelle more della conversione in legge del decreto legge n.112 del 2008 – sull’attuazione dell’articolo 71 del predetto decreto legge relativo alle assenze dal servizio dei pubblici dipendenti.


       In sintesi ecco le precisazioni:




    • Viene ribadito che le norme sulle assenza di cui all’art.71 del decreto legge n.112 del 2008 NON sono derogabili dai contratti collettivi.


    • Il decreto legge è entrato in vigore il 26 giugno 2008 e quindi l’applicazione del regime legale si riferisce alle assenze che si verificano da tale data.


    • Nei primi dieci giorni di assenza di malattia, di qualunque durata, “è corrisposto il trattamento economico fondamentale con esclusione di ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento economico accessorio”,  con le eccezioni eventualmente previste per le assenze dovute ad infortuni sul lavoro o a causa di servizio, oppure a ricovero ospedaliero o a day ospital o a terapie salvavita.


    • L’individuazione del “periodo superiore a dieci giorni” si realizza sia mediante attestazione di “un unico certificato dell’intera assenza sia nell’ipotesi in cui in occasione dell’evento originario sia stata indicata una prognosi successivamente protratta mediante altro/i certificato/i, sempre che l’assenza sia continuativa (“malattia protratta”)”.


    • Ovviamente nessuna assenza per malattia può essere giustificata da un “medico libero professionista non convenzionato con il Servizio sanitario nazionale”.


    • I periodi di assenza per malattia superiore a 10 giorni e, in ogni caso, dopo il secondo evento (cioè al terzo evento) di malattia nell’anno solare l’assenza deve essere giustificata sia “da una struttura sanitaria pubblica”  sia dai medici di medicina generale convenzionati con il Servizio sanitario nazionale (medico curante o di base).


    • E’ obbligatorio per l’amministrazione predisporre la visita fiscale anche nel caso di un solo giorno di assenza.


    • Il periodo di reperibilità al fine di agevolare la visita fiscale viene notevolmente ampliato: dalle ore 08,00 alle ore 13,00 e dalle ore 14,00 alle ore 20,00 di tutti i giorni compresi i festivi ( precedentemente: ore 10-12 e ore 17-19).

     


       Le nuove norme, oltre ad aver strappato tali regole specifiche alla contrattazione collettiva,  individuano nella “caccia al fannullone” il tentativo di dare efficacia alla pubblica amministrazione, ma tale nobile obiettivo non può concretizzarsi in un regime di “arresti domiciliari” per chi onesto e professionalmente capace è “colpevole” di malattia. Nessuna norma può ledere la dignità delle persone e il loro diritto alla salute senza incorrere in una palese illegittimità costituzionale.


     


     La Redazione


     



    Snadir  – venerdì 18 luglio 2008

  • LA FLC – CGIL NON SI SMENTISCE

    LA FLC – CGIL NON SI SMENTISCE


       La FLC-CGIL continua imperterrita a  sfornare ad ogni primavera comunicati che sembrano stampati con il ciclostile: tutti uguali. E’ ormai evidente che il suo scopo non è quello di commentare, ed eventualmente criticare, determinate situazioni, ma piuttosto quello di affermare a tutti i costi certi  vetusti principi legati ad  atteggiamenti anticlericali di anacronistica chiusura mentale. Ovviamente, ci vanno di mezzo la chiarezza, la verità, la correttezza: ma non è una novità!
       Ad essere nel mirino stavolta sono gli interventi della CEI sulle Indicazioni per il Curricolo per il primo ciclo di istruzione e le proposte per i nuovi “Obiettivi di Apprendimento” e per i “Traguardi per lo sviluppo delle competenze” relativi all’insegnamento della religione cattolica; la FLC-CGIL lamenta, in sintesi, che:



    • la CEI abbia avanzato tali proposte riferendosi ad un ” patrimonio storico e culturale del popolo italiano”;
    • tale “ingerenza” della CEI nell’operato del ministero danneggi fortemente i diritti degli studenti e delle famiglie che non intendono avvalersi dell’insegnamento della religione.

       Saltano subito all’occhio le evidenti contraddizioni in cui anche stavolta l’anonimo estensore del comunicato si è cacciato, innanzitutto perché l’Italia – checché ne dica la CGIL –  HA un patrimonio storico e culturale risalente alla tradizione cattolica (peraltro sancito dal Concordato), e il  coltivarlo  non vuol dire mettere in discussione i diritti delle altre confessioni religiose né attentare alla laicità dello Stato.
       Certamente la laicità ha il suo fondamento nella Costituzione, ma i valori presenti in essa non sono certo nati dal nulla; essi affondano le loro radici nel contesto culturale e, dunque, anche religioso,  del popolo italiano. Sarebbe opportuno ricordare a questo proposito quello che in una intervista afferma Abraham B. Yehoshua: “Tutti questi elementi mi sono del tutto estranei. Però non posso voltare la schiena alla religione, perché essa è anche all’origine della mia cultura. Così anche se non credo in Dio, la sua presenza nella mente di moltissimi esseri umani mi riguarda e mi interessa. Non possiamo semplicemente cestinare la religione. Piuttosto, dobbiamo estrapolare e prelevare dalla religione gli elementi costitutivi della nostra civiltà, della nostra cultura: altrimenti ci ritroveremo privi di storia, e saremo preda di una serie di miti che ci domineranno e ci rinchiuderanno in un circolo chiuso, vizioso e terribile” (Il cuore del mondo, pag.19).
       In secondo luogo, il principio in base al quale nella scuola italiana è possibile SCEGLIERE  se avvalersi o meno dell’irc  – proprio perché sancito dalla lege 121/1984 e dal Dpr 751/1985 – non è per nulla intaccato dalla proposta della CEI di integrare la religione cattolica tra le aree disciplinari collocandola in quella linguistico-artistico-espressiva:  le proposte della CEI si riferiscono  all’insegnamento della religione cattolica, e quindi in nessun modo riguardano coloro che sceglieranno di fare a meno di tale insegnamento, né rappresentano per loro una fonte di discriminazione perché non determinano una modifica dei contenuti degli insegnamenti previsti per tutti.
       Ancora una volta è bene precisare – e ricordare alla Flc-Cgil – che l’insegnamento della religione non è catechesi, ma si inserisce nelle finalità della scuola; cioè l’insegnamento della religione è iscritto nelle finalità della scuola storicamente presente, con la solo indicazione che si tratta di una religione cattolicamente intesa.
       Permettere agli studenti di conoscere ed approfondire quelle espressioni religiose che sono inscritte nelle categorie storiche delle nostra nazione non comporta certo il “primato di una religione sulle altre“. Non si tratta infatti di convincere o di fare proseliti, né tanto meno di arroccarsi nelle proprie indiscutibili convinzioni, ma di offrire gli strumenti per essere consapevoli protagonisti nell’agorà di oggi, accanto a tutti.
       Ma tutto ciò la Flc-Cgil finge di ignorarlo (o lo ignora!) preferendo gettare il solito fumo negli occhi, agitare le solite tesi indifendibili, mostrare  le solite contraddizioni.


    Orazio Ruscica


     



     


    Snadir – lunedì 19 maggio 2008

  • L’integrazione scolastica SOLO A PAROLE

    Il caso di un ragazzo rumeno rifiutato nelle scuole di Firenze


    L’integrazione scolastica SOLO A PAROLE


    E’ vero che a Firenze la situazione è drammatica, che si corrono i rischi di classi intere di non autoctoni, ma è davvero tanto difficile progettare una classe (se non una scuola) dove la differenza diventi davvero la molla del confronto e dell’arricchimento?


    “Sepolcri imbiancati, belli di fuori, ma dentro pieni di vermi e di ogni putridume!” Ecco come Gesù ha definito i farisei nel Vangelo di Matteo, ed ecco come io, indegno emulo di tanto maestro, mi sentirei di commentare la notizia della disavventura di Comitet.
    Illustri dirigenti che si trincerano dietro giustificazioni legalistiche; leggi approvate a tutela dei ragazzi e che contro di loro vengono usate per espropriarli di diritti, cosiddetti inalienabili, propri di ogni bambino; benpensanti scandalizzati per ogni cane abbandonato sull’autostrada, ma che non provano nessun rimorso per un bambino abbandonato all’ignoranza e all’isolamento.
    Non esiste freno all’egoismo di chi, senza merito, si trova nel mondo ricco e pretende di relegare lontano chi non ha avuto la stessa fortuna. Disposti a tutto purchè il proprio illustre rampollo non sia turbato nella sua crescita che dovrà inevitabilmente condurlo verso le alte sfere della società civile.
    Siamo ancora nella Firenze in cui Don Milani prospettava la figura del Pierino che, cromosomi del dottore alla mano,  poteva permettersi di ignorare perfino le normali scansioni scolastiche (saltando la prima elementare) e raggiungere ugualmente i successi a lui inevitabilmente destinati. Capace solo di frigger aria sui treni che parlano; di parlare lingue straniere fatte solo di eccezioni, ma sempre e soprattutto antisolidale, estraneo al normale corso degli eventi, inserito dalla nascita in una corsia privilegiata, incapace di provare il brivido dell’alterità nella propria vita. Il fariseo della parabola di Gesù aveva commesso     proprio questo peccato: si era preoccupato della propria salvezza e non di quella del pubblicano che viveva accanto a lui. Osservare la legge tradendone lo spirito è ormai tipico della no-stra scuola italiana in cui abbiamo inserito la massa degli studenti gratificandoli di un diploma e privandoli di una vera istruzione.
    Nelle nostre aule oggi, docenti e discenti, osserviamo il consueto rituale abituandoci ad un confronto ed una verifica fatta di precisione legale che eviti i “ricorsi” (vero deus ex machina e motore della nostra quotidianità) più che proporre un processo di crescita dei nostri ragazzi.
    E’ vero che a Firenze la situazione è drammatica, che si corrono i rischi di classi intere di non autoctoni, ma è tanto difficile progettare una classe (se non una scuola) dove la differenza diventi davvero la molla del confronto e dell’arricchimento?
    Certamente il confronto con Don Milani ci umilia; la sua dedizione è inarrivabile, ma il suo esempio ci può sollecitare.
    E se, da sindacalista, mi oppongo ad un lavoro senza riconoscimento (anche salariale), mi voglio comunque ritagliare, da cristiano, anche uno spazio  per oppormi ad un riconoscimento senza un lavoro serio, appassionato, coinvolgente per me e per chi mi sta di fronte.
    In altre occasioni abbiamo tutti riflettuto sul principio ologrammatico che la Legge Moratti ci proponeva come criterio ispiratore del nostro lavoro, ed io ho sempre cercato di interpretarlo come “il tutto nella parte”. Detto altrimenti: in ogni parte, in ogni segmento, in ogni unità-orario del mio lavoro , tutto me stesso, tutta la mia preparazione, la mia passione, la mia capacità empatica e la mia volontà di “esserci”.
    Non dimentichiamoci che il nome di Dio (a qualche modello bisogna pur ispirarsi, diceva Woody Allen) donato a Mosè è: “io ci sarò sempre per te, vicino a te, accanto a te!”.
    E non dimentichiamo nemmeno che due città furono distrutte perché non erano capaci di accogliere lo straniero: i loro nomi? Sodoma e Gomorra!


    Luigi Cioni


    Snadir – venerdì 11 aprile 2008

  • BULLISMO A SCUOLA

    Lo SNADIR presente ad un Convegno sul bullismo a Ciampino, nella persona della prof.ssa Maricilla Cappai, vicesegretario nazionale


    BULLISMO A SCUOLA


    Gli educatori sono chiamati ad invertire la rotta con una educazione alla libertà, che è responsabilità, ed all’autonomia


    Si è detto tanto oggi sul bullismo. Abbiamo appreso che è un fenomeno complesso che si manifesta con atti di prepotenza fisica e/o verbale, con atti di sopraffazione e di tacita accettazione degli stessi. Il bullo individua la vittima con il chiaro obiettivo di danneggiarla, facendole del male, portandola all’esclusione dal gruppo. Può trattarsi anche di una vera e propria persecuzione pervasiva dei nuovi strumenti tecnologici, capaci di veicolare immagini e parole in tempo reale. Le vittime perfette sono coloro che, come arma di difesa contro gli attacchi del bullo, non usano la violenza, ma la ragione, il dialogo e l’educazione, non riuscendo però nell’intento, poiché questo comportamento viene concepito come squallido e ridicolo nella visione del bullo. Ma … chi è il bullo – o carnefice, che dir si voglia, – se non una persona in difficoltà, in disagio? E qual è l’ambiente naturale in cui si consumano queste nefandezze? E dov’era la famiglia, la scuola quando il bambino o ragazzo passava dal punto zero alla demarcazione della linea, che porta allo scoppio, al classico comportamento da bullo? Bulli non si nasce. Si diventa. Per molti anni le indagini sul bullismo hanno rivolto la loro attenzione sulle prepotenze che avvengono nella scuola dell’obbligo, in realtà le prevaricazioni continuano nella scuola superiore e al di fuori di essa, nei bar, nelle feste, sui luoghi del lavoro, prendendo nomi diversi, nonnismo, mobbing e con modalità sempre più sofisticate e violente. Come contrastare questo fenomeno?
    È necessario, prioritario direi, fare della scuola un luogo di aiuto reciproco, di cooperazione, di prosocialità e tradurre i saperi della scuola in saperi di cittadinanza. A livello collettivo, nella funzionalità della convivenza e dell’armonia delle persone, gruppi e società, si ipotizza che l’abbondanza di azioni prosociali produce una diminuzione dei comportamenti violenti.
    Non è certo una impresa facile, tuttavia è solo attraverso la partecipazione studentesca, la qualità dell’insegnamento, la prevenzione del disagio giovanile, che è possibile contrastare violenza, bullismo ed illegalità. Se questo avviene, ha allora un senso la campagna nazionale avviata dal Ministro Fioroni (Direttiva ministeriale n. 16 del 5 febbraio 2007 sulle linee di indirizzo per la prevenzione e la lotta al bullismo), avvalendosi di numero verde ed osservatori regionali permanenti. Altrimenti la punizione fine a se stessa rimane lettera morta, e non potrà mai sortire quell’effetto cercato o almeno sperato. Fino a quando non verrà considerato il problema principale che è alla base del disagio giovanile, nulla potrà mai cambiare, anzi scivolerà pericolosamente verso il baratro. Ogni progetto di crescita implica fatica e dolore ineliminabili. Il messaggio che arriva oggi agli adolescenti, e ancor prima ai più piccoli, è invece del tutto illusorio, come se fosse possibile anestetizzare la vita. Ecco il perché del senso di onnipotenza e, in buona misura, di irresponsabilità dei nostri ragazzi. Il disastro educativo nasce da questa pretesa di eliminare la fatica di crescere. Fatica che implica anche un’autonomia progressiva di potersi sganciare dalla comodità del dipendere dai genitori. Il potenziamento dell’autostima rappresenta una via obbligata.
    Sotto accusa le due agenzie educative: famiglia e scuola, che sembrano aver abdicato dal loro compito fondamentale: formare l’uomo educando. Non informare, ma formare.
    I genitori dovranno riappropriarsi con determinazione della loro funzione educativa soprattutto sul piano della educazione emotiva. Bisogna ripartire proprio da qui. Dalla comunicazione emotiva e dai legami affettivi per affrontare il terremoto attuale nella relazione tra genitori e figli. Per far crescere figli forti, capaci di essere attori consapevoli nel reale teatro della vita e non semplici spettatori in balìa di capricci o mode del momento. E ancora, per essere capaci di fronteggiare con sicurezza e consapevolezza eventi buoni e cattivi che si presenteranno loro lungo la via della costruzione del sé, del proprio progetto uomo. Consapevoli di non essere soli né abbandonati a se stessi. Essendo però molto fragile la comunicazione emotiva in famiglia e nella scuola, si dovrebbero avviare veri e propri percorsi formativi per apprendere a comunicare. Dobbiamo prendere per mano i nostri figli, i nostri alunni, per accompagnarli lungo le vie difficili della vita, per aiutare un ”bruco a diventare farfalla”, una persona a crescere con i suoi tempi.
    Gli educatori sono chiamati ad invertire la rotta con una educazione alla libertà – che è responsabilità – ed all’autonomia. Mi viene in mente il libro di Savater “Educare alla libertà”, la storia di un padre che si accinge ad educare il proprio figlio all’esercizio della libertà. I nostri figli, i nostri alunni sono soli. Soffrono di una solitudine interiore indicibile. Chiusi nella tristezza del loro mondo virtuale, essi raramente si confrontano con gli adulti. I nostri giovani hanno bisogno di dialogo, di verbalizzare i sentimenti, le esperienze e le emozioni sia a scuola che nella ritualità quotidiana della tavola, ormai caduta in disuso. Vorrebbero ciò che a mio avviso spetta loro di diritto: instaurare un rapporto interpersonale con l’altro. Per conoscere sé stessi, l’alterità, per confrontarsi, per crescere. Noi adulti, educatori, dobbiamo credere nelle loro potenzialità. Ognuno di loro ha un talento, dobbiamo dar loro l’opportunità di disvelarlo anche a sè stessi. Il problema da risolvere è dunque il grande vuoto esistenziale. E… siamo chiamati tutti: genitori, docenti, amministratori locali. Dirò di più. Il problema da risolvere è la scuola. Sì, proprio la scuola, che bada di più alla burocrazia che alla sostanza. Una scuola vecchia da svecchiare. Pensiamo all’età dei docenti; il salto generazionale non è indifferente. E i linguaggi? Si è lontani anni luce. E ancora, una scuola che ha trasformato il progetto scuola in tanti, tanti e numerosi progetti. Come se assommandoli si potesse ottenere il vero progetto: la costruzione dell’uomo. Una scuola dove il discorso valoriale è quasi sparito, in nome del relativismo etico e di una neutralità etica non ben definita.
    Noi docenti abdichiamo al nostro ruolo, perché abbiamo perso noi stessi. Siamo abbandonati al nostro destino. Bisogna ricominciare da capo, far interagire le diverse agenzie educative presenti nel territorio : scuola, famiglia, parrocchia ed altre per individuare e proporre il progetto scuola del terzo millennio.
    E lo Stato? Dovrebbe investire importanti risorse finanziarie ed umane. L’Italia dovrà mettere la scuola, la formazione e l’educazione in cima all’agenda politica, investendo massicciamente in capitale umano. Abbiamo appreso oggi che alcuni deputati, nell’ambito della pubblica istruzione, hanno proposto di inserire o ripristinare l’ora di educazione civica, per arginare il fenomeno del bullismo e prevenire il disagio giovanile. Io personalmente, ma in genere la categoria degli insegnanti, trovo sia una proposta sterile. Fa già parte dei curricola ed è diventata la serva dell’ora di storia, nel senso che viene regolarmente sacrificata. Recupererei invece le ormai già dimenticate cinque educazioni che concorrevano all’Educazione alla Convivenza Civile in forma multidisciplinare ed oggi insite in una “disciplina” “interdisciplinare” che è la Bioetica. La scuola deve acquisire nuove chiavi ermeneutiche per attrezzare i ragazzi a leggere la contemporaneità e per orientarvisi. Innanzitutto è necessario individuare alcuni nodi problematici significativi e cruciali che possano fungere da catalizzatori concettuali attorno ai quali organizzare adeguati strumenti ermeneutici che dovranno, a loro volta, offrire uno sguardo multiprospettico e interdisciplinare.
    Ritengo che i temi della bioetica, specialmente se riportati alle loro matrici teoriche e collegati alle diverse prospettive culturali sottese, possano offrire chiavi interpretative di non poco conto per leggere e capire il mondo contemporaneo. Il fatto di ragionare, per esempio, su come nelle diverse prospettive bioetiche vengono affrontati i singoli temi alla luce del modo di intendere le nozioni di “qualità della vita” e “dignità della persona”, ci obbliga a riflettere su come l’uomo contemporaneo percepisce se stesso, anche nel suo rapportarsi con gli altri, sia a livello individuale che a livello sociale.
    Didatticamente parlando, la bioetica si presta particolarmente a saggiare chiavi ermeneutiche della contemporaneità, attraverso questioni a volte raffinate, non banali, che in qualche modo costringono ad andare oltre i triti luoghi comuni troppo facilmente condivisi ed altrettanto facilmente disattesi. E per me, che insegno Religione Cattolica, coniugare bioetica e teologia è il massimo. Anche il più cupo degli studenti si sente chiamato in causa ed esprime se stesso, mettendosi in gioco. Anche il Papa recentemente ha ripreso questo argomento dicendo che la scuola oggi, davanti alle notevoli sfide che emergono nel campo dell’educazione delle nuove generazioni, è chiamata ad offrire agli alunni l’opportunità di approfondire validi messaggi di carattere culturale, sociale, etico e religioso e non essere soltanto luogo di apprendimento nozionistico. Per dirla col Santo Padre Benedetto XVI, “Chi insegna non può non percepire anche il risvolto morale di ogni umano sapere, perché l’uomo conosce per agire e l’agire è frutto della sua conoscenza”.
    Avviandomi alla conclusione lancio una provocazione con qualche passo tratto da “E. FAURE, Rapporto sulle strategie dell’educazione (it. Orig., Apprende à etre, Paris, UNESCO 1972), tr. It. Armando, Roma 1973, pp. 137-138”. “Non è dunque venuto il momento di pretendere ben altro dai sistemi scolastici? E che cosa? Insegnare a vivere, insegnare ad imparare, in modo da poter acquisire nuove conoscenze durante tutta la vita; insegnare a pensare in modo libero e critico; insegnare ad amare il mondo e a renderlo più umano; insegnare a realizzarsi nel lavoro creativo. (…). Queste tesi sembrano astratte. Ma l’educazione è un’impresa di tali dimensioni che impegna alla radice il destino dell’uomo e non può essere circoscritta entro termini di strutture, di mezzi logistici, di procedure.”
    Sbaglio, o il documento risale al 1972? Quanto tempo ancora?



    Maricilla Cappai


    Snadir  – venerdì 11 aprile 2008

  • LA DISPERSIONE SCOLASTICA NELLA SCUOLA SECONDARIA

    LA DISPERSIONE SCOLASTICA NELLA SCUOLA SECONDARIA


    La scuola non sembra avere strumenti per colmare le lacune di chi proviene da situazioni più svantaggiate rischiando così concretamente di trasformare il privilegio dei vari Pierini in merito


    Nel Maggio del 1967 veniva consegnata alle stampe “Lettera a una professoressa” redatta dai ragazzi di Barbiana con la regia mirabile e, possiamo dire, ispirata, di don Lorenzo Milani. Questa lettera segna una fase importante nella storia della scuola perché ci ha aperto un mondo, dando a tutti quelle risposte che non si sarebbero riuscite ad esprimere se non con il linguaggio semplice e pungente di chi la scuola veramente l’amava e la viveva fino in fondo.
    Quelle parole colpiscono ancora come pietre quando ci dice che Gianni non è più tornato a scuola e così va in officina e spazza. Nelle ore libere segue le mode come un burattino obbediente [….] ma se si perde loro, la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Diventa uno strumento di differenziazione sempre più irrimediabile.1
    Certo la dispersione scolastica ancora oggi è un fenomeno complesso; tra le cause lo sviluppo socio-economico rappresenta certo un fattore di-scriminante e, nonostante sia-no passati ben quarantuno anni dalla pubblicazione della “Let-tera”, risulta essere ancora rilevante.
    Dobbiamo anche constatare che il fenomeno della dispersione dipende dalla scolarità dei genitori e dalla condizione professionale del padre. La scuola non sembra avere strumenti per colmare le lacune di chi proviene da situazioni più svantaggiate rischiando così concretamente di trasformare il privilegio dei vari Pierini in merito. La casa (di Pierino) è piena di libri e di cultura […]Pierino dunque diventerà professore. Troverà una mo-glie come lui. Tireranno su un Pierino a loro volta. Più Pierini che mai2.
    Uno dei principali fattori che influiscono sul rischio di uscita dal sistema scolastico è la mancanza di regolarità negli studi dovuta agli insuccessi scolastici.3
    Dalla stessa indagine del MPI risulta che nella scuola secondaria di primo grado, nell’anno scolastico 2004/05, il 2,7% degli studenti scrutinati non è riuscito a concludere con successo l’anno scolastico. Ai tempi di don Milani i “bocciati” erano il 28,2%.
    Più preoccupante il dato per la secondaria di secondo grado: l’11,4% non è riuscito a concludere con successo l’anno scolastico.
    Ancora continua l’indagine citata: Le maggiori difficoltà si determinano soprattutto all’inizio dei due cicli di istruzione, quando lo studente si trova ad affrontare un nuovo ambiente e nuove discipline: il 2,9% degli studenti del primo grado e il 18,1% del secondo grado devono ripetere il primo anno, quota che si va riducendo al crescere degli anni di corso. Il salto che si verifica nel passaggio tra il primo e il secondo grado della scuola superiore mostra, inoltre, le difficoltà legate alla scelta di un percorso di studi adeguato alle proprie capacità ed interessi.
    A questo proposito risulta evidente l’importanza di un appropriato orientamento ri-volto agli alunni secondo quei parametri espressi in un mio precedente articolo.
    Altra nota importante. Tra i non ammessi le differenze tra i sessi sono alquanto rilevanti, infatti, le ragazze mostrano una maggiore attitudine allo studio con risultati migliori rispetto ai loro coetanei ma-schi: in entrambi i livelli scolastici e in tutti gli anni di corso la percentuale di non ammesse è nettamente inferiore a quella dei maschi.
    Cosa fare? Non è semplice dare risposta. Certamente possiamo dare il nostro contributo approfondendo il problema, prendendoselo a cuore, come ha fatto don Milani, mettendo in atto strategie e atteggiamenti che manifestino accoglienza vera verso quegli alunni il cui atteggiamento di disagio si evidenzia, cercando di contenere i vissuti di solitudine che essi stanno vivendo in questa fase di crescita e maturazione. Ogni docente è chiamato a far fronte al disagio che può sfociare in   un drop-out, termine questo che suggerisce un qualcosa che si “dissolve”, e farsi carico dell’alunno in difficoltà, non solo individualmente , ma in un coordinato lavoro di equipe, facendo fronte al particolare vissuto dell’allievo, a quel momento di incomprensione (tipico, tra l’altro della fase adolescenziale) che può avere, però, un esito negativo e preoccupante come quello di ritenersi “insufficiente” nella vita.
    Per rimotivare questi nostri alunni, occorre dare loro l’opportunità di esprimere le capacità che certamente hanno in ambiti magari diversi da quello prettamente scolastico. La manualità, i laboratori e i progetti trasversali alle singole discipline, oltre a dare sfogo a quelle intelligenze multiple di cui parla Gardner, possono incoraggiare e rinfrancare chi in attività strettamente scolastiche o di studio non riuscirebbe a raggiungere un adeguato successo formativo.


    Giovanni Palmese



    1 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa. Libreria Editrice Fiorentina, pag 19 – 20
    2 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa. Libreria Editrice Fiorentina, pag 70 – 72
    3 Ministero della Pubblica Istru-zione, La dispersione scolastica, indicatori di base per l’analisi  del fenomeno. Anno Scolastico 2004/05


    Snadir – venerdì 11 aprile 2008

  • Otto marzo: festeggiare, perché?

    Otto marzo: festeggiare, perché?



       Ribellati, donna!


       Non cadere nella trappola commerciale dell’otto marzo, che non rispecchia appieno ciò che tu sei, per cui vivi, per cui lotti o il tuo essere ontologicamente donna. Tu sei grande. Tu, donna, madre, figlia, sorella, che ti fai grembo dell’essere umano, che porti nel nucleo familiare e poi nel complesso della vita sociale le ricchezze della tua sensibilità, della tua intuizione, della tua generosità e della tua costanza, ribellati.  
       Ma chi è la donna e cosa è la femminilità? E’ in alternativa e subordinata alla mascolinità?
       La mia formazione teologica mi solletica un po’ a ricercare una possibile risposta all’interno del discorso biblico. Se infatti rivisitiamo la pagina biblica che presenta la creazione dell’uomo, riusciamo ad individuare con molta chiarezza il radicale fondamento antropologico della dignità della donna, additandocelo nel disegno di Dio sull’umanità. FotoDonnainbiancoenero.jpg
       Vediamo che l’atto creativo di Dio si sviluppa secondo un preciso progetto. Innanzitutto, in Gn 1,26 è detto che l’uomo è creato ad “immagine e somiglianza di Dio”, espressione che chiarisce subito la peculiarità dell’uomo nell’insieme dell’opera della creazione.  Si dice poi, in Gn 1,27 che egli, sin dal principio, è creato come maschio e femmina.
       Sì, perché l’uomo pur trovandosi circondato dalle innumerevoli creature del mondo visibile, si rende conto di essere solo, Gn 2,20. Dio interviene per farlo uscire da tale situazione di solitudine: “Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”, leggiamo in Gn 2,18. Nella creazione della donna è inscritto, dunque, sin dall’inizio il principio dell’aiuto. Aiuto reciproco e non unilaterale come qualcuno dice, male interpretando il passo biblico. La donna è il complemento dell’uomo come l’uomo è il complemento della donna e non solo dal punto di vista fisico e psichico, ma ontologico.
       Dopo averli creati  comanda loro di riempire la terra e soggiogarla, Gn 1,28. Con questo voglio dire che non conferisce loro soltanto il potere di procreare per perpetuare nel tempo il genere umano, ma che affida loro anche la terra come compito, impegnandoli ad amministrarne le risorse con responsabilità. Non riflettono una uguaglianza statica e omologante, ma nemmeno una differenza abissale e inesorabilmente conflittuale.
       Allora, perché tanti soprusi, non solo quelli relegati nel passato, ma incredibilmente presenti? Mi riferisco alla lunga e umiliante storia, per quanto spesso sotterranea, di soprusi perpetrati nei confronti delle donne nel campo della sessualità. Possiamo ancora oggi rimanere impassibili e rassegnati di fronte a questo fenomeno? E’ ora di condannare con decisione, dando vita ad appropriati strumenti legislativi di difesa, le forme di violenza sessuale che non di rado hanno per oggetto le donne.
       In nome del rispetto della persona, non possiamo non condannare la diffusa cultura edonistica mercantile (in cui prosperano anche tendenze di maschilismo aggressivo), che promuove il sistematico sfruttamento della sessualità, inducendo anche ragazze in giovanissima età a cadere nei circuiti della corruzione e a prestarsi alla mercificazione del loro corpo.
       E che dire poi degli ostacoli che, in tante parti del mondo, ancora impediscono alle donne il pieno inserimento nella vita sociale, politica ed economica?  Non è forse per gentile concessione dell’uomo maschio, che qualche donna occupa qualche posto di rilievo nell’universo politico? Eppure la donna, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica, politica, dà un indispensabile contributo all’elaborazione di una cultura capace di coniugare ragione e sentimento e alla edificazione di strutture economiche e politiche più ricche di umanità. Forse perché lei, più dell’uomo, vede l’uomo perché sa vedere con il cuore.
       Coraggio, donne ricordiamo con la percezione, che è propria della nostra femminilità,  che nella quotidianità e non nello straordinario, arricchiamo la comprensione del mondo e contribuiamo alla piena verità dei rapporti umani.
       Denunciamo le ingiustizie, ma andiamo avanti con coraggio costruendo  magari un progetto di promozione che riguardi tutti gli ambiti della vita femminile, a partire da una universale presa di coscienza della dignità della donna.
       Solo allora, l’uomo e la donna potranno veramente fare festa.


    Maricilla Cappai


    Snadir – sabato 8 marzo 2008

  • LA SFIDA DELLA QUALITA’ E IL RITORNO AL MERITO PER UNA SCUOLA CAPACE DI ISTRUIRE EDUCANDO

    LA SFIDA DELLA QUALITA’ E IL RITORNO AL MERITO  PER UNA SCUOLA CAPACE DI ISTRUIRE EDUCANDO


    La scuola è per tutti e non deve discriminare nessuno perché l’istruzione e la formazione sono un bene comune, ma la scolarizzazione non deve escludere  la distinzione  fondata sul “merito” dimostrato sul campo


    Riportare il merito nella scuola e nella società. Il nostro Paese sta attraversando una grave emergenza-educazione che si misura nella scuola, ma anche nelle famiglie che sono in crisi; non è possibile che ci siano scuole vandalizzate due volte alla settimana; è necessario ricreare un rapporto di fiducia tra scuola e famiglia e condividere insieme un percorso, ridando prima di tutto un ruolo dignitoso agli insegnanti e ricreando le basi per vincere la sfida della qualità facendo in modo che la scuola sia seria”. Sono, queste, le affermazioni che il ministro della Pubblica Istruzione Fioroni ha espresso nel corso di una due giorni organizzata dalla Regione Liguria sul tema”Educare per crescere”, e sulle quali vogliamo incentrare alcune   riflessioni che ci sembrano essenziali all’interno del quadro di emergenza educativa nella scuola italiana. Le parole del ministro, in pratica, puntano l’attenzione su tre questioni, peraltro non nuove.


    Il ritorno al merito
    Nella scuola italiana, che con l’introduzione dell’autonomia  ha subito un processo di accorpamento e di aziendalizzazione, si sta correndo il serio rischio di perdere di vista il “merito”. E difatti si va constatando sempre più come, ad esempio nella Scuola media di primo grado, ormai la “non promozione” sia uscita di scena; sembra quasi  essersi affermata l’idea che un Diploma di Terza media non si nega a nessuno. E così accade che buona parte dei ragazzi è promossa con il “sufficiente” anche quando non sa  nulla, con la conseguenza di dar vita ad una nuova  categoria di poveri nel sapere, ma anche nella vita. “Riportare il merito”, a nostro avviso, significa non rinunciare al raggiungimento degli obiettivi di apprendimento  da parte di ogni singolo allievo. La scuola è per tutti e non deve discriminare nessuno perché l’istruzione e la formazione sono un bene comune, ma la scolarizzazione non deve escludere  la distinzione fondata sul “merito” dimostrato sul campo.


    Ricreare il rapporto di fiducia
    tra scuola e famiglia
    L’accentuarsi della crisi della famiglia di oggi non può non avere un riflesso sul rapporto con la scuola. I modelli protezionistici o, al contrario, di disinteressamento verso i figli sta rendendo sempre più difficile il rapporto scuola-famiglia, e queste due realtà anziché collaborare per la crescita umana e culturale dell’alunno-figlio, finiscono per entrare in conflitto, riversando l’una sull’altra le responsabilità del fallimento scolastico. Per evitare questo è allora importante che la conduzione dei rapporti sia improntata ad alcuni criteri es-senziali:
    a) la comunicazione produttiva e serena tra docenti e genitori, visto che entrambi han-no a cuore la formazione dell’allievo; b) l’attivazione di un rapporto di fiducia reciproca, di trasparenza e, soprattutto, di coinvolgimento attivo e di corresponsabilità, sicché tra docenti e genitori non si comunica solo nell’incontro formale di un ricevimento periodico, ma si stabilisce una interazione costruttiva nel rispetto delle competenze specifiche; c) la ricerca di strategie utili affinché scuola e famiglia possano insieme intervenire nel processo di apprendimento e di formazione dell’alunno e superare, così, quei momenti difficili che potrebbero compromettere il successo scolastico. In un contesto così caratterizzato, la conduzione dei rapporti con la famiglia deve dunque prefiggersi non obiettivi contrapposti, ma di reciproca, positiva e fiduciosa collaborazione.


    La sfida della qualità
    Riportare la qualità nella scuola italiana implica una revisione della metodologia della didattica, con la quale consentire ad ogni studente di crescere non lasciando indietro nessuno. Qui entra in campo un concetto essenziale, che è quello del “lavoro individualizzato”. Questo non è da confondere con il “lavoro individuale”, che, in fondo, è stato e viene ancora oggi praticato nella scuola; il lavoro individualizzato è tutt’altra cosa. Si tratta infatti di un percorso che viene programmato dal docente in rapporto alle specifiche possibilità di eseguirlo da parte dello studente, quindi tenendo conto dei prerequisiti in suo possesso, dei suoi interessi e delle sue attitudini. In un  quadro di “lavoro individualizzato” la scuola non lascia indietro nessuno e fa emergere non la selezione ma la qualità di tutti, espressa su diversi livelli. Una scuola di qualità non è dunque quella che promuove alcuni e boccia altri, ma una scuola che sa istruire educando, far crescere motivazioni in tutti gli allievi con una azione educativa mirata e centrata su metodologie flessibili e rispondenti alle possibilità di crescita e di sviluppo degli allievi econdo le loro diversità socio-affettive, cognitive e comportamentali.


    Domenico Pisana


    Snadir  – mercoledì 6 febbraio 2008


     


     

  • L’ORIENTAMENTO NELLA SCUOLA SECONDARIA TRA PROBLEMI E PROSPETTIVE

    L’ORIENTAMENTO NELLA SCUOLA SECONDARIA TRA PROBLEMI E PROSPETTIVE


    Non sono sufficienti le iniziative di orientamento a fine ciclo scolastico. È necessario promuovere, a cominciare dalla scuola secondaria di primo grado, un insieme di attività che aiutino gli studenti ad “investigarsi”, cioè a scoprire quali possono essere le proprie attitudini, le proprie predisposizioni, le proprie preferenze


    Orientarsi vuol dire sapere dove andare, sapere quale è la destinazione di un percorso. Se parliamo di orientamento nella scuola, il riferimento legislativo è il D.M.487/97 che lodefinisceuna “attività funzionale delle scuole di ogni ordine e grado” e “parte integrante dei curricoli di studio”… “affinché (le studentesse e gli studenti) possano essere protagonisti di un personale progetto di vita e partecipare allo studio e alla vita familiare e sociale in modo attivo, paritario e responsabile”.
    Ma sorge spontanea una riflessione: quanto è stato recepita e messa in pratica questa indicazione che pure risale a più di 10 anni fa?
    Molto spesso nelle nostre scuole si parla di orientamento solo alla conclusione dei cicli scolastici e vengono promosse diverse attività per aiutare studenti e famiglie nella scelta della scuola o del corso di studi successivo. Vengono così organizzati incontri di presentazione dei diversi corsi di studio attraverso la presenza di docenti o di professionisti del settore che presentano le proprie attività; si diffondono i calendari dei cosiddetti “open days” cioè giornate di apertura durante le quali i futuri alunni possono prendere confidenza con luoghi, persone e attività o discipline che sono peculiari di quell’ambito scolastico; sono possibili anche attività laboratoriali per verificare concretamente quanto sia previsto nei piani di studio; si potenziano gli incontri con le famiglie ed i colloqui personali tra docenti e genitori; ogni anno viene pubblicato il libro che presenta i piani di studio di tutte le facoltà; sono invitati ex-studenti che possono presentare la propria esperienza e fornire indicazioni pratiche alle future matricole; agli alunni vengono somministrati test che possano fornire indicazioni più precise su attitudini e preferenze.
    Non possiamo poi sottovalutare la conoscenza che l’insieme dei docenti può raggiungere nei confronti degli studenti, ma sottolineo il carattere di collegialità di questo giudizio proprio perché esso non sia troppo legato ai soli giudizi di merito acquisiti nelle diverse discipline. I docenti dovrebbero imparare a non fermarsi alle sole valutazioni ottenute, ma a formulare un giudizio globale soprattutto tenendo conto che gli anni della scuola superiore sono quelli dei maggiori cambiamenti e della più profonda maturazione.
    Tutte queste iniziative, pur molto utili, rischiano però di essere esterne al processo di maturazione e di conoscenza di sé indispensabile perché lo studente arrivi davvero a formulare un proprio progetto di vita. È necessario promuovere, a cominciare dalla scuola secondaria di primo grado, anche un insieme di attività che aiutino gli studenti ad “investigarsi” cioè a scoprire quali possono essere le proprie attitudini, le proprie predisposizioni, le proprie preferenze. Non si tratta di inventarsi nuovi programmi ma di promuovere diverse modalità di svolgere attività trasversali a tutte le discipline, di ampliare i laboratori per non sminuire le capacità manuali, musicali o artistiche in senso lato spesso relegate in second’ordine nelle attività scolastiche. Manca un progetto unico che finalizzi e riunifichi tutti i tentativi di ampliamento delle nostre offerte formative.
    Iniziare questa conoscenza di sé permette di scegliere con maggior consapevolezza l’indirizzo di studi più adatto e più facilmente condurrà a quelsuccesso scolastico tanto desiderato che, affiancato alle conoscenze del territorio dove si vive e della sua economia, alle esigenze del mercato, alla consapevolezza di nuovi sbocchi professionali, diventerà un aiuto concreto alla realizzazione di quel progetto di vita a cuiogni nostro studente aspira.


    Giovanni Palmese


    Snadir – mercoledì 6 febbraio 2008

  • Le competenze del counselling nei Centri di Informazione e Consulenza (C.i.c.) per la crescita culturale e formativa degli studenti

    Le competenze del counselling nei Centri di Informazione e Consulenza (C.i.c.) per la crescita culturale e formativa degli studenti


    Cosa può fare la scuola per comprendere e sostenere gli adolescenti nei loro disagi? I docenti e gli istituti hanno a disposizione strumenti concreti ed efficaci per avvicinare i ragazzi oltre la didattica e i curricoli?
    L’evoluzione della scuola in questi anni sembra dimostrare di sì. In moltissimi istituti italiani, dalla scuola primaria alle superiori, hanno continuato a funzionare i C.i.c., Centri informazione e consulenza, voluti dalla Legge 162/90 – che li istituiva (art. 106) soprattutto per contrastare le tossicodipendenze e chiedeva l’utilizzo non di specialisti, ma dei docenti stessi, adulti sensibili ai rischi dell’età adolescenziale.
    In questi 18 anni le cose sono molto cambiate ed è stata maturata molta esperienza nell’ascolto dei ragazzi, con l’attivazione di servizi di sostegno, di progetti che non sono più solo di prevenzione del disagio, ma anche di educazione alla salute, “promozione dell’agio”, benessere a scuola e azioni di prevenzione. Di tali azioni hanno parlato altre leggi, la 104/92 e la 285/97 sull’integrazione e gli interventi socio-sanitari, ma anche lo Statuto delle studentesse e degli studenti e le convenzioni che le Ussl hanno stilato con gli uffici scolastici locali. E gli istituti spesso hanno prodotto documenti per gestire i servizi sotto forma di Protocolli d’azione.
    In questi anni i docenti hanno frequentato corsi di aggiornamento sui temi di urgenza sociale, (tra gli altri i disturbi dell’alimentazione, le tendenze suicidiarie, le dipendenze tra le quali soprattutto l’alcoolismo, il bullismo, ecc.), ma anche hanno acquisito, con dedizione e sacrificio, nuove competenze professionali che diventano estremamente appropriate nel servizio di ascolto dei ragazzi. E lo hanno fatto spesso proprio gli I.d.r.


    1. Nuove professioni sociali, come il Counsellor, si rendono molto utili per il Servizio di ascolto e consulenza degli adolescenti nella scuola
    Una delle competenze più interessanti è quella del “counselling”, ampiamente diffuso nei paesi del nord Europa e in America, ma che in Italia stenta ancora a decollare, nonostante la presenza di molti istituti che forniscono la specializzazione e di tanti operatori abili. In questa situazione in trasformazione, l’impiego dentro le istituzioni, soprattutto nella scuola, è uno sbocco necessario: non esiste infatti ancora un albo professionale e spesso gli psicologi percepiscono tali figure come concorrenti.
    Il counsellor non fa terapia né analisi psicologica, ma è uno specialista di comunicazione efficace, di assertività e sa indagare le relazioni interpersonali per evidenziare ciò che è disfunzionale. Ha competenze nell’“ascolto attivo” e si avvale di un background teorico che può andare – a seconda del percorso di formazione – dalla gestione dei conflitti emotivi (Gestalt) al rielaborare i copioni di vita (Analisi Transazionale), dal rispecchiamento (approccio Rogersiano) all’analisi dei comportamenti e convinzioni profonde (approccio cognitivo-comportamentale), a volte utilizzando anche altre filoni, dalla psicoanalisi alla psicosomatica.
    Così i vecchi C.i.c. sono diventati Centri di ascolto e consulenza, con progetti specifici che rientrano nell’Area 3 delle funzioni strumentali, “Servizi e Interventi a favore degli studenti”.
    I colloqui che i docenti operatori svolgono con i ragazzi (l’accesso avviene per appuntamento diretto oppure attraverso il coordinatore di classe o la segreteria) mirano a un cambiamento reale, concreto e autentico del ragazzo, accompagnandolo nel percorso di “ridecisione”, ciò per cui a volte necessitano diversi colloqui. In essi l’operatore si dimostra cordiale, empatico, non giudicante, e rispettoso del sistema di pensiero dell’allievo. Tali atteggiamenti si concretizzano in alcune semplici tecniche di ascolto, la parafrasi (ripetere sinteticamente ciò che l’utente dice, per assicurarsi di comprenderlo), la verbalizzazione emotiva (riconoscere le emozioni in gioco), la confrontazione (accostare dati non coerenti per individuare conflitti e impasse), il feedback dato o raccolto. Molte altre tecniche riguardano livelli avanzati di empatia, concettualizzazione del problema e interventi di ridecisione.


    2. Le tecniche di “ascolto attivo” e l’empatia come strumenti di lavoro nei colloqui con gli adolescenti


    Le ricerche hanno indicato che sono tre gli elementi che possono creare reale miglioramento attraverso i colloqui: una relazione calda, forte e autentica tra utente e operatore; l’attenersi a un preciso modello teorico e di intervento; e la passione e il desiderio dell’operatore che l’utente stia meglio.
    Il malessere dell’utente, quando non dipende da circostanze esterne oggettive su cui si dovrà agire (caso poco frequente), dipende da meccanismi interni disfunzionali che egli  esprime attraverso irrigidimenti e “difese”: contro di essi – per usare una metafora – l’operatore attua un assedio (dolce), individua i punti deboli e li mostra all’utente, pur senza invaderlo e anzi prendendosi cura di lui. Già questo approccio da solo assicura l’efficacia degli interventi e aumenta lamotivazione al benessere da parte dell’utente.
    Non c’è lo spazio qui per affrontare aspetti teorici né pratici del counselling, cosa che si potrebbe fare in seguito con altri articoli. Ma osserviamo, in estrema sintesi, che sono diverse le fasi di rielaborazione dei problemi che gli adolescenti portano nei colloqui.


    L’operatore ha il compito di individuare il problema concretamente; comprendere la fase in cui si trova il ragazzo e farlo diventare consapevole; individuare le resistenze al cambiamento e invitare e accompagnare il ragazzo a procedere nella rielaborazione mettendo in atto strategie alternative più funzionali.


    3. Un ricerca sulle scuole superiori della provincia di Treviso
    Riporto i risultati di una ricerca eseguita dal CSA (a cura di M. G. Bernardi) relativa all’anno 2005/06 nelle scuole superiori della provincia di Treviso. Su 42 scuole (30.000 studenti) ben 37 hanno un servizio attivo di Cic (però in 11 di esse non c’è stato alcun colloquio). Sono 213 i docenti impegnati a vario titolo (numero tale per cui ci si chiede se è possibile fornire adeguata formazione e aggiornamento), più operatori dell’Ussl. Sono 1846 i ragazzi che hanno avuto accesso, con 2180 ore di colloquio.
    La prevalenza dei problemi portati in colloquio riguarda le RELAZIONI (con la famiglia, compagni di classe, amici e con gli insegnanti), poi PROBLEMI SCOLASTICI (demotivazione, scarso rendimento, necessità di riorientarsi), la CURA DI SÉ (bassa autostima, scarsa competenze emotiva, ecc.) e solo in misura minima l’ABUSO DI SOSTANZE.
    Il servizio di ascolto costituisce un importante osservatorio.La ricerca conclude che si può rilevare un “trend ormai evidente e se i dati indicano una difficoltà generale a gestire le relazioni sia con gli adulti sia con il gruppo dei pari, occorre valutare se sono possibili azioni, indirizzate alla generalità degli studenti, come forma di prevenzione del problema (lo stesso può dirsi per quanto riguarda il problema della crisi della scelta scolastica oppure le difficoltà di apprendimento), interventi volti ad incrementare le abilità sociali degli studenti, la capacità di affrontare problemi e prendere decisioni, che sono considerati dall’OMS come elementi protettivi rispetto al prendersi carico del proprio stato di salute, evitando comportamenti a rischio”.
    Per ulteriori informazioni sul counselling e bibliografia si veda
    http://vaglieri.tripod.com/counseling.htm.                


    Enrico Vaglieri


    Snadir  – mercoledì 6 febbraio 2008


     

  • IL SENSO DEL RICORDARE IN UNA SOCIETA’ ABITUATA ALL’ORRORE

    Ancora sulla Giornata della memoria nella scuola, a margine della celebrazione del 27 gennaio scorso


    IL SENSO DEL RICORDARE IN UNA SOCIETA’ ABITUATA ALL’ORRORE


    L’orrore, mostrato e realizzato, non stupisce più, non indigna più. Ci siamo abituati a qualunque forma di massacro e nefandezza


    I tempi editoriali ci costringono talvolta a degli iati temporali, tra la scrittura dei testi e la effettiva fruizione da parte dei lettori; scrivo queste righe dopo aver posto in essereun effettivo impegno ad organizzare per la mia scuola la giornata del 27 gennaio. E, a parte una mattina di studio per le classi terminali, ci siamoingegnatiper far partecipare alcune classi del nostro istituto (liceo classico e scientifico) ad una manifestazione organizzata dalla regione Toscana sul tema “Shoah e cinema”.
    Proprio il riflettere su come preparare le suddette classi, per una partecipazione responsabile, mi ha introdotto e mi coinvolto in un pensiero ricorrente: “non siamo responsabili solo per quello che diciamo, ma anche di quello che mostriamo e facciamo vedere!”
    Dice Elie Wiesel: “noi non possiamo tacere perché è nostro compito ricordare, il compito assoluto del sopravvissuto (anche se lui stesso ha avuto i suoi momenti di scoramento e delusione.- cfr. la fine di Al sorgere delle stelle), ma evitiamo di mostrare tutto! fermiamoci di fronte alle porte del lager, o almeno di fronte a quelle delle camere a gas!” non cerchiamo di mostrare l’inguardabile!
    Dobbiamo cercare di avere rispetto sia per le vittime che per i nostri occhi, che, per la malvagità del mondo, troppo hanno gia visto.
    In questo infatti corriamo un terribile rischio: quello di immettere la Shoah tra il “già visto” e “già sentito”.
    In molti, di fronte al disastro delle torri gemelle, dell’11 settembre, si sono sorpresi perché quello che stavano vivendo in diretta non li stupiva, non li sorprendevapiù di tanto.
    Si rendevano conto che quella, pur inedita, forma di violenza ed assassinio, in realtà faceva già parte del loro immaginario: “lo avevano già visto al cinema, in innumerevoli pellicole di disastri annunciato ed immaginati”.
    Ecco allora l’orrore, mostrato e realizzato, non stupisce più, non indigna più. Ci siamo abituati a qualunque forma di massacro e nefandezza.
    Ed allora, la Shoah ed il cinema? Dobbiamo davvero, come propone Wiesel, rinunciare a mostrare l’evento?
    Non so dare una risposta apodittica: posso solo tentare di darne una didattica.
    Mai mostrare semplicemente un film, ma contestualizzarlo, spiegarlo, individuare la specificità del racconto e del messaggio individuale; non accontentarsi di pellicole che richiamino ad un generico buonismo o ad una generica riprovazione; trovare e leggere i libri a cui il regista si è ispirato e discuterli con gli alunni.
    Ascoltare anche i loro suggerimenti e le loro reazioni, perché, se il nostro messaggio vorrà essere efficace, non può prescindere dal loro immaginario.
    E poi, lanciare ancora provocazioni, discutere le loro eventuali esperienze, compiute anche personalmente.
    E poi, e poi… la fantasia non ha limiti!
    Ma tutto questo nell’ora di religione?
    Prima di tutto non ho mai affermato chel’organizzazione della Giornata della memoria spetti unicamente all’Idr e, grazie a Dio, molti sono gli insegnanti di qualunque disciplina che si pongono questi problemi (anche se, a mia conoscenza, tutti gli Idr in questo sono sempre in prima linea), ma alla fine di tutte queste considerazioni, la mia risposta è Sì.
    Nell’ora settimanale, nei dialoghi nei corridoi, nelle occasioni di incontro per le strade del paese, eventualmente nelle parrocchie, in cui magari anche noi ci troviamo a passare.
    E poi, e poi… la fantasia e la vita non hanno limiti.



    Luigi Cioni


    Snadir – mercoledì 6 febbraio 2008