Categoria: Scuola e Società

  • Rapporto INVALSI 2019: una sintesi

    Presentato questa mattina (10 luglio 2019) alla Camera dei Deputati il Rapporto Nazionale delle Prove Invalsi 2019. Di seguito una sintesi dei risultati:

     
    I risultati della scuola primaria
    I risultati della scuola primaria sono molto simili in tutte le regioni del Paese e difficilmente le differenze sono significative in senso statistico. Tuttavia, emergono già alcune indicazioni che possono lasciare intravedere aspetti problematici che nel ciclo secondario contribuiscono a determinare risultati molto diversi sul territorio nazionale e tra le scuole.
     
    1. I risultati medi di Italiano al termine della II primaria sono molto simili in tutto il Paese. Per Matematica, invece, si riscontrano valori più bassi della media nazionale in alcune regioni del Mezzogiorno (Campania e Sardegna), tendenza che diviene piu` evidente nei gradi scolastici successivi.
    2. In V primaria aumentano le differenze dei risultati medi con una polarizzazione degli esiti tra le regioni centro-settentrionali e quelle del Mezzogiorno. In alcune regioni del Sud (in particolare Campania, Calabria, Sicilia) si osserva un numero elevato di allievi con livelli di risultati molto bassi, soprattutto in Matematica.
    3. Buoni i risultati d’Inglese degli allievi della scuola primaria italiana. L’88,3% degli allievi della V primaria raggiunge il prescritto livello A1 del QCER nella prova di lettura (reading) e l’84,0% di allievi il prescritto livello A1 del QCER nella prova di ascolto (listening). Al Nord e al Centro gli allievi che raggiungono il livello A1 di reading sono circa il 90%, mentre al Sud circa l’85%. Per il listening, invece, gli allievi che si collocano al livello A1 sono circa l’87% al Nord e al Centro, mentre circa il 78% al Sud.
    4. Rispetto al 2018 si riscontra un apprezzabile miglioramento soprattutto nella prova di ascolto (listening) della V primaria, in particolare nelle regioni del Mezzogiorno. Probabilmente l’introduzione delle prove d’Inglese al termine del ciclo primario ha favorito una maggiore attenzione verso l’ascolto (listening) rispetto a quanto avveniva nel passato.
    5. Già a partire dal ciclo primario, in Italiano, in Inglese e ancora di più in Matematica si riscontra una differenza dei risultati tra scuole e tra classi nelle regioni meridionali. Ciò significa che la scuola primaria nel Mezzogiorno fatica maggiormente a garantire uguali opportunità a tutti, con evidenti effetti negativi sui gradi scolastici successivi.
     
    La prova CBT per la III secondaria di primo grado (grado 8) consente di fornire gli esiti mediante livelli crescenti di risultato (da 1 a 5 per l’Italiano e la Matematica e da pre-A1 ad A2 per l’Inglese). Si puo` ritenere adeguato ai traguardi delle Indicazioni nazionali il livello 3 per Italiano e Matematica. Per l’Inglese il livello A2 e` esplicitamente previsto dalle Indicazioni nazionali per la scuola secondaria di primo grado. A livello nazionale gli studenti che ottengono risultati adeguati o più elevati sono:
    • Italiano: 65,60% (+0,03% rispetto al 2018)
    • Matematica: 61,33% (+1,42% rispetto al 2018)
    • Inglese-reading (A2): 77,58% (+3,68% rispetto al 2018)
    • Inglese-listening (A2): 59,94% (+3,67% rispetto al 2018)
     
    Rispetto al 2018 si riscontra un leggero miglioramento degli esiti complessivi. L’aspetto pero` più importante, e positivo, e` che esso si manifesta soprattutto nel Mezzogiorno e a vantaggio degli studenti più deboli.
     
    In alcune regioni del Mezzogiorno (in particolare Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna) si riscontra un maggior numero di allievi con livelli di risultati molto bassi, soprattutto in Matematica e Inglese, con punte anche del 55-60% della popolazione scolastica del grado 8 al di sotto dei traguardi stabiliti dalle Indicazioni nazionali.
     
    Emergono forti evidenze di disuguaglianza educativa nelle regioni del Mezzogiorno sia in termini di diversa capacita` della scuola di attenuare l’effetto delle differenze socio-economico-culturali sia in termini di differenze tra scuole e tra classi.
     
    Si conferma anche per il 2019 il sostanziale azzeramento del cheating. Ciò è importante non solo perché garantisce dati e informazioni di maggiore qualità, ma perché si traduce in un’occasione di esplicito rispetto delle regole, aspetto molto importante e di grande valore educativo.
     
     
    I risultati della scuola secondaria di secondo grado
    Anche le prove INVALSI per la seconda secondaria di secondo grado sono computer based (CBT). Le materie testate sono l’Italiano e la Matematica per la II classe (grado 10) e Italiano, Matematica e Inglese (ascolto e lettura) per l’ultimo anno (grado 13).
     
    La II secondaria di secondaria grado (grado 10):
    • La partecipazione degli allievi del grado 10 e` stata leggermente superiore a quella del 2018 (+0,2%), consolidandosi quindi il miglioramento riscontrato con il passaggio alle prove CBT, avvenuto nel 2018.
    • Le considerevoli differenze tra le regioni e tra gli indirizzi di studio confermano quanto si osserva nel grado 8 e anticipano quello che si vede ancora di piu` nel grado 13.
     
    L’ultimo anno della scuola secondaria di secondaria grado (grado 13):
    • Le prove sono costruite per fornire risultati su una scala unica per Italiano, Matematica e Inglese in funzione dei traguardi previsti dalle Indicazioni nazionali/Linee Guida al termine del secondo ciclo di istruzione. Indipendentemente dal percorso di studi frequentato, le prove sono costruite in modo tale da fornire a ciascun allievo la possibilità di raggiungere i risultati più alti.
    • A livello nazionale gli studenti che ottengono risultati adeguati o più elevati sono:
      • Italiano: 65,4%
      • Matematica: 58,3%
      • Inglese-reading (B2): 51,8%
      • Inglese-listening (B2): 35,0%
    • In alcune regioni del Mezzogiorno (in particolare Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna) si osserva un maggior numero di allievi con livelli di risultati molto bassi, soprattutto in Matematica e Inglese.
    • A livello nazionale, gli allievi che raggiungono risultati molto bassi in Italiano sono circa il 13% del totale, ma tale quota supera il 20% in Campania, Basilicata e Sicilia, per arrivare al 25% in Calabria.
    • Nella prova di lettura (reading) il 51,8% degli studenti delle scuole italiane raggiunge il B2. Invece, il 10,6% non raggiunge il B1, ossia si posiziona a un livello di competenza molto basso dopo 13 anni di scuola. In Calabria, Sicilia e Sardegna la percentuale degli allievi che raggiungono il B2 scende, rispettivamente, al 31,0%, al 34,8% e al 34,1%. Ancora piu` forte il divario rispetto al dato nazionale nella percentuale di allievi con risultati molto bassi. Infatti le percentuali di allievi che non raggiungono il B1 sono: Calabria 21,7%, Sicilia 18,2% e Sardegna 20,0%.
    • Nella prova di ascolto (listening) solo il 35,0% degli studenti delle scuole italiane raggiunge il B2 (traguardo previsto alla fine della scuola secondaria di secondo grado). Invece, il 25,2%, cioe` uno studente ogni quattro, non raggiunge il B1, ossia si posiziona a un livello di competenza basso dopo 13 anni di scuola. In Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna la percentuale degli allievi che raggiungono il B2 scende, rispettivamente, al 19,9%, al 14,6%, al 14,8% e al 20,7%, a fronte del 49,3% del Veneto. Ancora piu` forte il divario rispetto al dato nazionale della percentuale di allievi con risultati molto bassi (non raggiunge il B1). Infatti le percentuali di allievi che non raggiungono il B1 sono: Campania 41,7%, Calabria 47,7%, Sicilia 46,7% e Sardegna 40,8%, a fronte del 10,9% del Veneto.
    • Si osserva una considerevole differenza tra gli esiti della prova di lettura (reading) e quelli della prova di ascolto (listening). Tali esiti fanno pensare alla prevalenza di una didattica maggiormente legata alla frequentazione dei testi scritti. Con l’eccezione delle province autonome e del Friuli-Venezia Giulia, la percentuale di studenti al livello B1 del QCER non si differenzia molto nelle diverse aree del Paese. Grandi differenze si osservano invece nelle percentuali degli allievi che non raggiungono il B1 o di quelli che raggiungono il B2 (traguardo previsto per tutti gli indirizzi di studio dalle Indicazioni nazionali/Linee Guida).
     
     
    Snadir – Professione i.r. 10 luglio 2019, h.15,52

     

  • Rapporto Invalsi 2019: emerge il divario scolastico fra Nord e Sud

    Continua ad essere ben radicato il divario scolastico tra Nord e Sud: è quanto emerge dal Rapporto Nazionale 2019 Invalsi presentato questa mattina alla Camera.

     
    L’esito delle prove Invalsi non lascia spazio all’immaginazione: già a partire dalle elementari, con numeri che diventano rilevanti alla fine dei primi cinque anni di scuola obbligatoria, emergono profonde differenze di apprendimento tra gli studenti della penisola che riguardano soprattutto materie come l’italiano e la matematica. Ancora una volta, la situazione della scuola italiana non accenna a mostrare segni di miglioramento. Il quadro è davvero poco confortante: l’Istruzione del Sud Italia rimane un’emergenza.
     
    “Stando a questi numeri, appare quanto mai irragionevole – dichiara il prof. Orazio Ruscica, segretario nazionale Snadir – che si possa immaginare un sistema educativo fondato sulla disponibilità economica delle singole regioni, come prospettato dalle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Un tale passo non farebbe altro che rinsaldare il divario scolastico già presente tra le regioni del Nord e quelle del Sud Italia e investirebbe non solo l’intero tessuto culturale del nostro Paese, ma anche la vita economica e sociale, la salvaguarda dell’eredità del passato e  ogni prospettiva di futuro sviluppo”.
     
    Emerge una visione catastrofica che va a tutti costi scongiurata a favore di un’apertura più ampia a progetti di rinnovamento e potenziamento dell’istruzione e della ricerca che implementino la collaborazione e la coesione sociale, anche in vista del confronto internazionale.
     
    “Il Ministro Bussetti – afferma ancora il prof. Ruscica – se fosse rimasto ad ascoltare la presentazione dei dati Invalsi 2019, avrebbe certamente avuto motivi validi e robusti per abbandonare definitivamente il modello di regionalizzazione a cui dice di ispirarsi”. 
     
     
     
    Snadir – Professione i.r. – 10 luglio 2019, h.19,20
  • Regionalizzazione: quali conseguenze per la scuola?

    Risale a febbraio 2019 la proposta avanzata dalle regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna di organizzare il sistema educativo secondo la disponibilità economica di ogni singola regione, sulla base delle previsioni contenute nell’art. 116 della Costituzione, modificato dalla riforma del Titolo V approvata nel 2001, che consente a ciascuna Regione ordinaria di negoziare particolari e specifiche condizioni di autonomia. L’obiettivo era quello di regionalizzare la scuola e l’intero sistema formativo tramite una vera e propria “secessione” delle regioni più ricche, prevedendo un sistema scolastico differenziato in materia di offerta formativa, trattamento economico del personale scolastico, criteri per la selezione del personale e dello scorrimento delle graduatorie.

     
    Tale proposta, fortemente sostenuta dal ministro dell’istruzione, è stata oggi al centro della riunione della maggioranza governativa per la regionalizzazione del sistema nazionale di Istruzione.
     
     
    Cosa prevede la proposta?
     
    La regionalizzazione della scuola prevede la differenziazione dell’organizzazione della didattica, dello scorrimento delle graduatorie degli insegnanti e della loro retribuzione. In particolare, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna hanno chiesto di:
    • differenziare la programmazione, l’offerta formativa e i percorsi di alternanza scuola-lavoro;
    • disciplinare autonomamente l’assegnazione di contributi alle istituzioni scolastiche paritarie;
    • regionalizzare i fondi statali per il diritto allo studio, anche universitario;
    • regionalizzare il trattamento economico del personale scolastico.
    In altre parole, la proposta sembra voler creare sistemi scolastici differenziati, basati sulle risorse economiche delle singole Regioni e senza tener conto del principio dell’unitarietà dell’istruzione.
     
     
    Quali conseguenze per la scuola?
     
    Tra le conseguenze immediate della riforma si avranno inquadramenti contrattuali del personale su base regionale; retribuzioni, sistemi di reclutamento e di valutazione disuguali
    e percorsi educativi diversificati.
     
    Di fatto, dal punto di vista culturale, verrebbero meno i principi fondanti della Costituzione che impegnano lo Stato ad assicurare un pari livello di formazione scolastica e di istruzione a tutti, con particolare attenzione alle aree territoriali con minori risorse disponibili e alle persone in condizioni di svantaggio economico e sociale.
     
    Non si tratta di un semplice decentramento amministrativo: l’ipotesi che si fa strada è quella di un progetto di involuzione catastrofica che investirebbe l’intero sistema scolastico pregiudicando non solo l’unitarietà culturale e politica del sistema di istruzione e ricerca, ma l’intera tenuta unitaria del sistema nazionale, in un contesto nel quale già esistono forti squilibri fra aree territoriali e regionali.
     
     
    Le parole del ministro Bussetti
     
    Tra l’altro, le recenti dichiarazioni del ministro Bussetti sembrano ignorare quanto sottoscritto con i maggiori sindacati della Scuola e dell’Istruzione il 24 aprile 2019.
     
    In quell’occasione, il Governo, e quindi lo stesso Bussetti, si è impegnato “a salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale di istruzione e ricerca, garantendo un sistema di reclutamento uniforme, lo status giuridico di tutto il personale regolato dal Ccnl, e la tutela dell’unitarietà degli ordinamenti statali, dei curricoli e del sistema di governo delle istituzioni scolastiche autonome”.
     
    L’Intesa siglata lo scorso 24 aprile tra sindacati e Governo parla chiaro: la scuola deve essere lasciata fuori dalla partita della regionalizzazione. Non si tratta di una semplice promessa ma di un impegno formale messo nero su bianco dopo una lunga ed estenuante trattativa durata una notte intera e sottoscritto da Conte e Bussetti.
     
    Le ultime dichiarazioni del ministro fanno invece intendere che il suo modello si ispiri a quello del Trentino Alto Adige, dove risorse, orario, piano di studio, contratti di lavoro, mobilità, aggiornamento del personale docente e Ata, reclutamento dei dirigenti scolastici, non sono più nazionali. Un modello che sarebbe bene non imitare. Si vedano ad esempio a Bolzano le 220 ore annuali funzionali, gli arretrati del CCNL 2018 che non hanno ricevuto, del lavoro burocratico aumentato in maniera spropositata, il monte ore nell’infanzia di 33 ore, ecc.
     
     
    La società civile pronta alla mobilitazione
     
    Davanti a tale ipotesi, lo Snadir esprime un netto dissenso e una profonda indignazione, e auspica una mobilitazione ampia che non sia solo politica o sindacale, ma che chiami a raccolta l’intera comunità nazionale. Contrastare la regionalizzazione dell’istruzione in difesa del principio supremo dell’uguaglianza e dell’unità della Repubblica è per tutti noi un impegno e insieme un’opportunità.
     
    La fumata nera con cui si è chiuso il vertice di ieri a Palazzo Chigi è per il momento un segno che accogliamo con soddisfazione, a dimostrazione del fatto che la strada della regionalizzazione sia del tutto impraticabile per il sistema di istruzione.
     
    La scuola pubblica italiana è deve restare una e indivisibile. Ne va della tenuta democratica e sociale del nostro Paese.






    Snadir – Professione i.r. – 9 luglio 2019, h.19,48
  • Precariato: i primi passi del Governo

    Il 23 aprile scorso è stata raggiunta un’intesa tra il Governo e le organizzazioni sindacali del comparto “Istruzione e ricerca” che ha posto in evidenza le questioni urgenti per le quali si vuole, a breve, trovare una soluzione.
     
    È stata sollecitata l’apertura delle trattative per il rinnovo contrattuale (scaduto a dicembre 2018) e il Governo si è impegnato a garantire il recupero, nel triennio, del potere d’acquisto delle retribuzioni del personale con un avvicinamento alla media dei livelli retributivi degli altri Paesi europei. Ovviamente ci si augura che non si tratterà del solo recupero dell’inflazione ma che si proceda ad una effettiva valorizzazione delle accresciute competenze professionali che la scuola italiana oggi richiede.
     
    Circa il precariato, premesso l’impegno del Governo a una regolare indizione dei concorsi per il personale docente, è stato comunque ribadito che saranno individuate adeguate e semplificate modalità per agevolare l’immissione in ruolo del personale docente che abbia maturato almeno 36 mesi di servizio. Tali modalità, tuttavia, non escludono “percorsi selettivi” che lo Snadir/FGU ritiene penalizzanti per gli insegnanti di religione che hanno già superato un pubblico concorso e per coloro che hanno 36 mesi di servizio.
     
    Un impegno più netto sembra essere stato assunto dal Governo, al momento, solo sul tema della “regionalizzazione”, con l’intento “a salvaguardare l’unità e l’identità culturale del sistema nazionale di istruzione e ricerca, garantendo un sistema di reclutamento uniforme, lo status giuridico di tutto il personale regolato dal CCNL, e la tutela dell’unitarietà degli ordinamenti statali, dei curricoli e del sistema di governo delle istituzioni scolastiche autonome”.
     
    Il Ministro dell’Istruzione, facendo seguito ai contenuti dell’intesa del 23 aprile, ha specificato che si attiveranno tavoli di discussione a partire dal 6 maggio sul reclutamento e sul precariato, seguirà Il 14 maggio il confronto circa le funzioni dei dirigenti scolastici, il 20 si parlerà di nuovo contratto e il 28 di Università e Ricerca e Alta formazione artistica, musicale e coreutica.
     
    Il primo incontro (6 maggio 2019), sul tema del precariato (riferito in generale a tutto il personale della scuola), si prospetta non risolutivo: l’idea di attivare dei PAS (percorsi abilitanti speciali)  gestiti dalle Università, ma questa procedura non potrebbe applicarsi agli insegnanti di religione la cui “abilitazione” è da rinvenirsi nella pronuncia del Consiglio di Stato del 1958 che ha equiparato i docenti di religione cattolica agli altri docenti abilitati in virtù dell’idoneità rilasciata dal vescovo competente per territorio, come abilitazione all’insegnamento.
     
    Ancora più problematica è la prospettiva di una quota riservata ai precari nelle prossime procedure concorsuali, principio che, se applicato anche agli insegnanti precari di religione lascerebbe il problema del tutto irrisolto considerato che già la quota di organico è limitata al 70% dei posti complessivamente disponibili (legge n.186/2003). Dunque una doppia e discriminate limitazione con la quale, come abbiamo ribadito più volte, le immissioni in ruolo si potranno contare in poche decine per ogni Regione.
     
    Risulta evidente che per la condizione precaria degli insegnanti di religione è indispensabile uno stralcio normativo che, come nel caso di altre recenti procedure straordinarie concorsuali legittimamente confermati dalla Corte Costituzionale il 7 u.s., tenga conto che da quindici anni non viene bandito un nuovo concorso e che, riconosciuta la situazione “straordinaria”, si operi con interventi di reclutamento altrettanto straordinari.
     
    Si continua, con tutti i mezzi a disposizione delle OO.SS., ad assicurare il nostro impegno affinché tutti gli insegnanti incaricati di religione, che in maniera meritoria hanno profuso la loro professionalità nelle scuole, possano veder soddisfatta la loro esigenza di stabilità lavorativa. Tollerare la condizione di precariato di oltre 15.000 docenti non è più possibile: è una condizione inaccettabile che, come afferma anche Papa Francesco, “uccide la dignità, uccide la salute, uccide la famiglia”.
     
    È tempo allora di riprendere con vigore il percorso avviato su diversi fronti per rimettere al centro della vita politica il tema del lavoro e l’eliminazione del precariato. Non ci stancheremo mai di dirlo: il lavoro precario è espressione di una società soggetta all’arbitrio del potere economico che mortifica la dignità della persona e in quanto tale va combattuto e annientato con tutte le nostre forze.
     
    Orazio Ruscica
     
     
    Snadir – Editoriale Professione i.r. 5/2019 – 14 maggio 2019, h.19,10
  • Autonomia regionale differenziata: attacco all’unità nazionale

    La richiesta di autonomia delle regioni Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna in corso di approvazione è un evento che potrà cambiare radicalmente l’immagine di un’Italia unita e solidale. Una vera e propria rivoluzione che, salvo imprevisti, sarà siglata con un accordo tra il primo ministro Giuseppe Conte e i rappresentanti delle amministrazioni regionali italiane.
     
    Le regioni sopraindicate (ma forse altre se ne aggiungeranno) hanno difatti richiesto al Governo condizioni specifiche di autonomia in materia di istruzione e formazione, sulla base delle previsioni contenute nell’art. 116 della Costituzione, modificato dalla riforma del Titolo V approvata nel 2001, che consente a ciascuna Regione ordinaria di negoziare particolari e specifiche condizioni di autonomia.

    L’obiettivo di tale richiesta è quello di regionalizzare la scuola e l’intero sistema formativo tramite una vera e propria “secessione” delle Regioni più ricche, che porterà a un sistema scolastico con investimenti e qualità legati alla ricchezza del territorio. 
     
    Come conseguenza immediata, si avranno inquadramenti contrattuali del personale su base regionale; salari, forme di reclutamento e sistemi di valutazione disuguali; livelli ancor più differenziati di welfare studentesco e percorsi educativi diversificati.
     
    Di fatto, vengono meno il ruolo dello Stato come garante di unità nazionale, solidarietà e perequazione tra le diverse aree del Paese e i principi supremi contenuti nella prima parte della Carta costituzionale, che impegnano lo Stato ad assicurare un pari livello di formazione scolastica e di istruzione a tutti, con particolare attenzione alle aree territoriali con minori risorse disponibili e alle persone in condizioni di svantaggio economico e sociale.
     
    Non si tratta di un semplice decentramento amministrativo: l’ipotesi che si fa strada è quella di un progetto di involuzione catastrofica che investirebbe l’intero sistema scolastico pregiudicando non solo l’unitarietà culturale e politica del sistema di istruzione e ricerca, ma l’intera tenuta unitaria del sistema nazionale, in un contesto nel quale già esistono forti squilibri fra aree territoriali e regionali. 
     
    Non ci sarà più un unico sistema nazionale di istruzione, con alle proprie dipendenze oltre un milione di operatori scolastici, ma tanti sistemi regionali quante sono le Regioni con autonomia differenziata.  Non si tratta, quindi, solo di una “regionalizzazione” dei fondi statali per il diritto allo studio ma anche di una regionalizzazione del personale della scuola e dei relativi contratti.
    Ne uscirebbe un Mezzogiorno schiacciato dal peso di un federalismo vacillante, un Paese in frantumi, una sperequazione senza precedenti.
     
    Davanti a tale ipotesi, lo Snadir e gli altri sindacati della scuola esprimono il loro netto dissenso e auspicano una mobilitazione ampia che non sia solo politica o sindacale, ma che chiami a raccolta la società civile, che accenda gli animi, che li indigni (contro la regionalizzazione del sistema di istruzione FIRMA anche tu la PETIZIONE). Che li allei tutti contro ogni forma di secessionismo, territoriale e culturale, e contro coloro che non hanno a cuore il nostro Paese, la sua bellezza, la sua unità.
     
    Non erano questi i cambiamenti che il mondo della scuola attendeva. Quanto tempo si dovrà ancora attendere per un risolutivo piano di edilizia scolastica, per una riduzione del numero di alunni per classe, per un adeguamento delle retribuzioni ai parametri europei, per la cancellazione della piaga del precariato?

    Orazio Ruscica
     
     
     
    Snadir – Professione i.r. – 18 marzo 2019, h.12,09