Aggiornamento interreligioso?
La realtà dell’aggiornamento nella scuola italiana è probabilmente descritta da un unico fatto che riportiamo come sintomatico: negli anni 90 il contratto nazionale degli insegnanti prevedeva come indispensabile e tassativa la frequenza di un certo numero di ore di aggiornamento perché si potesse effettuare lo scatto di anzianità maturato con il servizio. Abbiamo assistito in quegli anni a situazioni che oscillavano tra il ridicolo ed il grottesco.
Insegnanti che frequentavano i corsi più disparati, con nessuna attinenza con la propria materia di insegnamento, scelti con l’unico criterio di essere vicini a casa propria o del numero di ore di frequenza adeguato al raggiungimento del quorum necessario. L’argomento trattato e la metodologia, la preparazione, la professionalità del docente venivano considerate in maniera minima. Chi scrive ha partecipato a corsi con colleghe che “sferruzzavano”, colleghi con la “Settimana enigmistica” sotto il banco, vicini che leggevano l’ultimo best seller e… chi più ne ha più ne metta.
E l’ovvio risultato di tutto questo è stato che i contratti successivi, invece di cercare di correggere queste storture, hanno semplicemente abolito la norma rimandando la questione dell’aggiornamento ancora una volta alla buona volontà di chi, tra presidi che storcono la bocca perché non riescono a sostituire gli assenti, costi proibitivi delle trasferte e, talvolta, anche la commiserazione dei colleghi, chissà per quale motivo, trova ancora necessario leggere, studiare, ascoltare lezioni; in un parola: crescere.
In questo panorama sconfortante dobbiamo invece affermare che nella nostra diocesi, un po’ grazie all’Istituto di scienze religiose, un po’ alla determinazione di alcuni insegnanti, siamo riusciti (ovviamente chi ha voluto farlo) a vivere esperienze di corsi di aggiornamento che potremmo definire paradigmatiche per un IdR che si voglia collocare consapevolmente nella scuola di oggi.
Ne descriviamo due, fatte a distanza di tempo e con modalità quindi diverse.
La prima: un corso di auto-aggiornamento, fatto nelle varie zone della Diocesi, in tempi e luoghi stabiliti e verificabili da parte dell’autorità sia ecclesiastica che civile. Ogni gruppo di insegnanti ha lavorato per proprio conto con la modalità seminariale e laboratoriale.
Il tema del corso era il monachesimo e il risvolto interessante è stato che, oltre a descrivere ed analizzare il monachesimo antico e medievale (nella sue varie forme eremitiche, anacoretiche e cenobitiche) abbiamo cercato di evidenziare i tratti comuni con forme di monachesimo presenti in altre esperienze religiose. In particolare ci siamo soffermati sulla esperienza ebraica di Qumran e sul monachesimo buddhista.
A conclusione di questo lavoro abbiamo effettuato una visita e un incontro con i monaci del monastero buddhista di Pomaia, situato sulle colline toscane, in provincia di Pisa.
La seconda esperienza, più recente (1), e organizzata in maniera ufficiale dall’ISSR, è stata un corso di aggiornamento in Terra Santa. In questi anni avevamo effettuato classici corsi sull’ebraismo, sul dialogo ebraico cristiano, sull’Islam, sull’ebraismo post-biblico e il viaggio in Israele è stato il logico sviluppo di questo itinerario.
Guidato dal biblista della nostra diocesi, abbiamo effettuato non il classico pellegrinaggio, ma abbiamo visitato la terra di Gesù alla luce della Parola, guidati dalla Scrittura, e siamo arrivati a Gerusalemme per la Pasqua ebraica, ortodossa, armena, copta ecc. ecc.
“A Gerusalemme affluiranno tutte le genti”; mai affermazione biblica è stata vissuta da noi con maggiore intensità.
L’esperienza è stata arricchita anche da alcuni incontri estremamente significativi: con i monaci della comunità ecumenica di Bose; una vista ad asilo/orfanotrofio di Betlemme e un incontro con giovani della scuola francescana del luogo.
Attraversare il muro di separazione tra Israele e territori, toccare con mano la povertà e l’odio, la disperazione e la volontà di fuggire da una realtà che viene percepita come insopportabile: è stato ben più che una lezione frontale.
Quali sono allora i tratti che abbiamo definito “paradigmatici” di queste esperienze?
Cerchiamo di evidenziarli brevemente. Prima di tutto la caratterizzazione di un corso come un itinerario che preveda lezioni, studio personale, esperienza di insegnamento e comunicazione (tutte realtà presenti nella didattica seminariale/laboratoriale), avendo come termine parò l’esperienza concreta.
Il sapere staccato dalla vita, dal territorio in cui si vive, dalla possibilità concreta della verifica, è ciò che costituisce l’esperienza più frustrante per i nostri alunni. Imparando invece a vivere itinerari concreti di apprendimento forse saremo in grado di allestirli anche durante la nostra didattica quotidiana.
E infine, come elemento ultimo, ma certo non tra i meno importanti, il fatto che entrambe le esperienze hanno previsto elementi di ascolto, di dialogo con credenti in altre religioni.
Già il capitolo V della Nostra aetate individuava nel dialogo il punto fondamentale del rapporto, in quel caso, con i fratelli maggiori appartenenti all’ebraismo, eppure questa esperienza rischia di non appartenere al nostro insegnamento.
Crediamo che ognuno di noi faccia quotidianamente i conti con alunni che, pur avvalendosi dell’IRC, non vivono nessuna esperienza religiosa, pur avendo compiuto tutte le tappe dell’iniziazione cristiana, o non hanno mai avuto nessun rapporto neppure sacramentale con la religione, o addirittura hanno vissuto, magari in lontani paesi di origine, esperienze di religioni diverse. Crediamo davvero che sia possibile trascurare ancora l’aspetto interreligioso dell’IRC?
Il 28 ottobre (2) è passato nel più assoluto silenzio, sia nelle nostre chiese che nei nostri istituti; aspettiamo il prossimo 17 gennaio (3): ci auguriamo e lavoriamo per un esito diverso
L. Cioni
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(1) E’ stata svolta nell’aprile 2005
(2) Giornata per il dialogo cristiano-musulmano.
(3) Giornata per il dialogo ebraico-cristiano.
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