RIFLETTENDO SULL’ENCICLICA “FIDES ET RATIO” DI GIOVANNI PAOLO II
La metafora delle due ali.
Sebbene nel testo la citazione non venga esplicitata, tuttavia possibile ritenere che nell’immagine delle “due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verit”, Giovanni Paolo II abbia subito il fascino del “Fedro” Platonico.
Il paragrafo 246 del “Fedro” recita testualmente: “Il divino ci che bello, sapiente e buono e tutto ci che di questo tipo. Appunto da queste cose le ali dell’anima vengono nutrite e accresciute in grado supremo” (trad. ital. Di Giovanni Reale).
Le due ali, nell’ottica credente del Papa, sono la fede e la ragione. Il volo reso possibile solamente dalla capacit e dalla buona salute di ambedue le ali ma anche vero che ciascuna ala ha in s stessa la propria forza e capacit e non l’attinge affatto dall’altra.
Fuor di metafora, il Papa afferma che fede e ragione, pur tendendo entrambe all’unico obiettivo che la verit, sono tuttavia l’una autonoma nei confronti dell’altra; ciascuna di esse ha una propria forza, una propria capacit, le proprie peculiari procedure.
Non possibile alla fede giungere alla verit senza la ragione.
Dalla metafora delle due ali scaturiscono due affermazioni apparentemente scandalose ma inconfutabilmente vere: 1) Non possibile alla fede giungere alla Verit senza la ragione; 2)Non possibile alla ragione giungere alla Verit senza la fede.
Iniziamo col renderci conto della prima affermazione. La ragione umana, che lo si ammetta o no, sempre domanda di significato; essa non si rassegna mai all’insignificanza dell’esistere, ma ripropone con rinnovato ardore la questione del “perch” della vita e delle cose. Si badi: la ragione che pone la domanda sul senso, non la fede; la fede pretende esserne la risposta; la fede infatti confessa e testimonia che il senso si identifica con la persona di Ges Cristo, vero Dio e vero uomo.
Ma la fede senza la ragione sarebbe una risposta inutile e insensata, poich verrebbe ad essere una risposta data ad una domanda che l’uomo non si pone. Alle luce di quanto stiamo affermando, si comprende allora il senso profondo della formula “intellego ut credam” (che poi il titolo con cui si apre il capitolo terzo dell’enciclica); tale formula non sta a significare solamente il fatto che “la ragione del credente esercita le sue capacit di riflessione dentro un movimento che, partendo dalla parola di Dio, si sforza di raggiungere una migliore comprensione” (Fides et ratio, n.73); la formula appare ancor pi valida e pi preziosa soprattutto quando l’uomo non si trova ancora nella dimensione delle fede, quando egli ancora “non parte dalla parola di Dio”; quando l’approdo alla fede non ancora avvenuto, la funzione della ragione diventa ancora pi decisiva poich essa apre lo spazio dell’inquietudine interrogante, della ricerca paziente e appassionata del senso, orienta lo sguardo della mente a scrutare gli enigmi e le contraddizioni dell’esistenza e da ultimo conduce fino alla soglia dell’invocazione; soglia oltre la quale “l’inizio immemorabile custodisce se stesso” (M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi). Tutto questo lo fa la ragione (cio la filosofia) e lo fa senza la fede e a prescindere dalla fede.
Si capisce allora perch nell’enciclica non si da spazio ad ogni forma di fideismo: “Non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilit di credere in Dio. Un’espressione oggi diffusa di tale tendenza il “biblicismo” che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l’unico punto di riferimento veritativo” (Fides et ratio, n.55).
La ragione non svolge solamente l’importante funzione di tenere desta la domanda sul senso dell’esistere; essa non solamente “ragione interrogante”, ma anche “ragione ermeneutica” (sotto questo aspetto l’enciclica non pu certamente essere accusata di atteggiamento anti-moderno poich essa assume come valida la “curvatura ermeneutica” (Fornero) del pensiero contemporaneo.
La ragione infatti interpreta (l’ermeneutica appunto il lavoro dell’interpretare) i segni della rivelazione consentendo cos un’indagine pi approfondita del mistero. Il testo lo dice con chiarezza al n.13 del capitolo primo: “In aiuto alla ragione vengono i segni presenti nella rivelazione. Servono a condurre pi a fondo la ricerca della Verit (Ricoeur direbbe che i segni “obbligano a pensare”) e a permettere che la mente possa indagare anche all’interno del mistero”. Ma proprio nell’esercitare questa sua funzione ermeneutica nei confronti della Rivelazione, la ragione giunge al prorpio limite; essa si rende conto che “oltre alla conoscenza della ragione umana, capace per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste una conoscenza che peculiare della fede” (Fides et ratio, n.8).
Non possibile alla ragione giungere alla Verit senza la Fede.
Autentica risposta agli interrogativi drammatici dell’esistenza umana la la Rivelazione di Dio in Ges Cristo: “solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” (Gaudium et spes, n.12).
Ma la Rivelazione la Sapienza “Totalmente Altra” di Dio; perci “la Verit che la Rivelazione ci fa conoscere non il frutto maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione. Essa, invece, si presenta con la caratteristica della gratuit, produce pensiero e chiede di essere accolta come espressione di amore” (Fides et ratio, n.15).
Viene cos alla luce la natura vera del rapporto tra ragione e fede che un rapporto di continuit e discontinuit al tempo stesso; coloro che affermano un rapporto di continuit assoluta rischiano di non dare il giusto rilievo alla “Sapienza Totalmente Altra di Dio”; coloro che, al contrario, insistono troppo sulla frattura netta e radicale tra la ragione e la fede, rischiano di vanificare il fondamento umano e interrogante della fede; sia gli uni che gli altri perdono di vista la profonda valenza sim-bolica del dinamismo credente (da sym-bolon=tutt’uno).
Il giudizio dell’enciclica sulle filosofie del nostro tempo.
La ragione dunque compie un lavoro prezioso ed insostituibile, ma solo a condizione che essa intenda ed eserciti se stessa come “recta ratio” (retta ragione). Ed tale se non smarrisce la sua vocazione originaria che consiste nell’orientare la ricerca umana verso la Verit ultima.
Il Papa ha ragione di lamentare che “soprattutto ai nostri giorni, la ricerca della Verit ultima appare spesso offuscata. Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande merito di aver concentrato la sua attenzione sull’uomo…… ma intenta ad indagare in maniera unilaterale sull’uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che questi pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso una verit che lo trascende” (Fides et ratio, n.5).
La ricerca filosofica odierna “ha finito per smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo” (n.5); siamo in presenza “di una frammentariet di proposte che elevano l’effimero al rango di valore” (n.6).
Ma quelle sopra elencate sono tutte conseguenze funeste del fatto che “la filosofia, da saggezza e sapere universale, si ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano” (n.46).
Segue poi nel testo la messa in guardia dal “pericolo che si nasconde in alcune linee di pensiero oggi particolarmente diffuse” (n.86). Le tendenze contestate sono nove: 1) eclettismo; 2) storicismo; 3) scientismo; 4) pragmatismo; 5) nichilismo; 6) positivismo; 7) materialismo; 8)problematicismo; 9) relativismo.
Non creda affatto il lettore di trovarsi in presenza di un nuovo “sillabo degli errori del nostro tempo”; in realt questi nove filoni di pensiero altro non sono che nove salse diverse di un’unica pietanza che l’immanentismo radicale (vale a dire la funesta liquidazione di ogni riferimento alla trascendenza).
L’enciclica “contesta” tali indirizzi della filosofia contemporanea ma ci tiene anche a sottolineare che la Chiesa non si identifica affatto con uno specifico e determinato sistema filosofico. La Chiesa riconosce invece e approva il pluralismo delle diverse posizioni filosofiche purch tale pluralismo non degeneri appunto in un relativismo rinunciatario nei confronti della ricerca della Verit. Perci il testo non pu essere accusato di “integrismo filosofico”.
Se una critica pu essere rivolta all’enciclica, pensiamo che sia quella di rimproverarle la sua “inattualit”; intendiamo dire cio che difficilmente essa riuscir a ri-orientare i percorsi del pensiero contemporaneo; chi infatti conosce, anche in maniera non specialistica, tali percorsi, sa bene in quali meandri, in quali labirinti, in quali dimensioni “atopiche”, oggi va a ficcarsi la riflessione filosofica. E perci noi condividiamo l’opinione di Emanuele Severrino il quale, pur da posizioni dichiaratamente anti-cristiane, riconosce che il grande merito del documento proprio quello di denunciare “l’addio alla Verit” che la tendenza prevalente del panorama contemporaneo.
Giuseppe Tidona
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